domenica 20 settembre 2009

PERCHÉ ATLANTIDE È REALTÀ, NON FANTASIA

Un'analisi testuale classicistica della descrizione platonica.
il parere di Enrico Turolla
Nell’immediato dopoguerra (1947) la Casa Editrice Garzanti di Milano, nella sua serie "Classici Greci", propose ai lettori italiani il volume "L’ATLANTIDE di Platone: letture scelte dal Timeo e dal Crizia" interpretate e commentate a cura dell’autorevole classicista italiano Enrico Turolla. In tal modo, dopo gli sconvolgimenti della Seconda Guerra Mondiale, la questione del continente sommerso veniva autorevolmente rilanciata in Italia in libreria riproponendo le sue fonti tradizionali. Di tale testo antologico ragionato dei testi platonici relativi al mitico continente-isola primevo sottoponiamo qui ai lettori la prefazione firmata dal suddetto curatore del volume, specchio di una convinzione, quella di non pochi autori italiani dell’epoca, che non ha perso minimamente la propria validità.

La serie dei dialoghi platonici si svolge dagli anni primi della vita del Maestro ininterrotta sino agli anni postremi della gloriosa esistenza. "Scribens", si potrebbe ripetere anche pel Maestro ateniese, "Plato mortuus est". E la conclusione di questa sublime sequenza di opere è, ci si conceda il termine, "bicipite".
Spieghiamo.
Bicipite, con due capi cioè. E questi ; due capi sono rappresentati dal gruppo "Leggi Epinomis" da una parte; dal gruppo "Timeo", "Crizia", "Ermocrate", dall’altra. E intendiamo che a noi sarebbe lecito porre la parola fine sia dopo l’una che dopo l’altra serie di opere, mediate, l’una e l’altra, da un’unica istanza speculativa: la progressiva penetrazione del bene nel regno del divenire; penetrazione che avviene nel mondo istorico e di cui Platone attende l’attuazione e si fa di essa aiutatore e cooperatore. Ecco, lo sforzo eroico di dare una costituzione per la Città attesa. Tutto ciò perseguono i dodici libri del grande dialogo e la breve "Appendice alle Leggi o Deuteronomio", come si può interpretare la parola greca "Epinomis". Invece la penetrazione del bene nel mondo naturale è delineata nel Timeo e nel mondo della istoria pure (Crizia) ma non più in un’attesa futura, bensì nella istoria pristina dell’umanità, remota così, che ogni traccia di quell’organizzazione ora è cancellata.
I due gruppi inoltre presentano ancora caratteri comuni di non completa consumazione formale, ché nelle "Leggi", è notizia giuntaci dai tempi antichi, l’opera finale di revisione non è stata compiuta; nel "Timeo" e nel "Crizia", l’opera di revisione è perfetta indubbiamente ma il "Crizia" è interrotto e l’"Ermocrate", che doveva consumare la trilogia atlantica, non è mai stato scritto. Onde la trilogia si chiama anche opportunamente "trilogia incompiuta".
Lasciamo ora da parte il capo delle "Leggi" e della sua appendice, cronologicamente con piena probabilità posteriore all’altro. Nella "trilogia incompiuta", dunque, oltre a delineare il momento demiurgico della Creazione, Platone, quasi fin dalle prime parole del "Timeo", anteponendo insomma e anticipando, per evidenti ragioni costruttive, inserisce un accenno abbastanza diffuso a quello che sarà l’argomento del secondo dialogo, la descrizione cioè della Città giusta quale era stata all’origine dei tempi; inserisce, più esattamente, l’indicazione delle fonti che gli hanno concesso di figgere lo sguardo in un’antichità così remota. Indicate le fonti l’argomento devia e si rivolge a perseguire la Creazione, cioè l'episodio primo di questo sublime dramma. Il "Crizia" poi, episodio secondo, ci introduce definitivamente nel regno della istoria umana. E ciò che Platone ci narra, adoperando la sua terminologia, è mito, è racconto; non è dialettica, indagine, non esplorazione nel regno ulteriore dell’invisibile essere, come del resto nemmeno era dialettica l’indagine delle "Leggi" e della sua "Appendice". Platone interrompe insomma il suo parlare non in regno di dialettica, bensì in regno mitico. Tale è appunto nella sua totalità il "Crizia".
Terminare con un mito vuol dire, terminare nel mistero. E "mistero" pare a noi parola suscettiva d’interpretare e spiegare vera mente cosa sia il mito platonico. Racconto certamente; non tuttavia racconto di comuni eventi. Sono miti per esempio taluni racconti che perseguono eventi della storia ulteriore, la storia cioè dell’uomo dopo la morte; ci sono miti per la storia anteriore, la storia dell’uomo prima della nascita. Comune, negli uni e negli altri, l’accento di rinuncia ad un’affermazione di scienza e l’adozione d’una conclusione probabile. Scienza, sempre, non nel senso avvilito moderno (scienza naturale in tutte le sue sfumature: fisica, chimica, astronomia ecc.) ma nel senso eroico eleatico-platonico-aristotelico. Scienza dell’essere; scienza a priori, scienza del necessario; scienza metafisica. Non dunque conclusioni certe in questi miti, che rivolgendosi essi alla vita, sia pure in condizioni diverse dalla vita corporea, vengono pur sempre ad indagare le cause seconde delle quali esiste soltanto una scienza relativa; annubilata, probabile insomma. Tuttavia, mentre per l’indagine naturalistica del "Timeo" può soccorrere il metodo deduttivo, onde il "Timeo" è pur sempre un’indagine a carattere scientifico; più esattamente doxastico; questo aiuto viene in conclusione a mancare, quando s’avanzano i problemi dell’al di là.
Sara muto allora il nostro dire? Sarà cieca la visione?
No, certo, per Platone erede della dottrina tradizionale e simbolica di Pitagora. Qui è uno degli accenti più squisitamente originali e profondi della speculazione platonica. Ma di questo aspetto del mito-mistero non è qui il luogo di trattare. Qui intendiamo pervenire al mito-mistero del "Timeo" e del "Crizia"; questo mito ha carattere particolare sul quale e necessario far luce.
Mito-mistero quello della trilogia incompiuta, e tale, vorremmo dire, per ragioni estrinseche. La sede ove esso va ragionando non è posta al di là della vita e al di là della storia; l’argomento suo è nella storia stessa.
Soltanto i secoli, in rapporto alla comune durata di vita mortale, innumeri sono trascorsi e separano il nostro oggi da quelle remotissime età. In mezzo, fra noi e gli uomini che come per miracoloso gioco di luci vengono rievocati nella pagina del Maestro, vi è il silenzio di cose inesorabilmente cancellate, cose fatte nulla in oblio. Ebbene, oltre il compatto muro; oltre il grande deserto dei novanta secoli (tanti erano ai tempi di Platone; ora si tratta di cento secoli e dieci) dei quali per la massima parte più nulla sappiamo; ebbene, oltre, e quasi dal principio dell’umana istoria, giungono a noi voci, nomi, un sonito di gesta, un fragore di armi.
Come per nuova televisione, vediamo ancora profili di monti, selve, canali; palazzi, templi, castelli; e la forma d’isole e la forma d’un continente. Di tutto ciò nulla vi è più; il mare ha invaso; il mare ha distrutto; il diluvio ha annientato. Ma noi sappiamo di quelle isole il nome; anche dei re antichi sappiamo il nome. Quelle isole costituivano l’Atlantide e la famiglia dei re n’era sovrana. Questo è il mito dell’Atlantide, il racconto della Atlantide diremo noi traducendo alla lettera e sacrificando lo spirito; il mistero dell’Atlantide diremo con altra parola che rievoca in noi ciò che Platone voleva significare con la sua parola nella sua lingua.
È vero ciò che Platone narra? Questa, la domanda di chiunque s’avvicina al racconto Atlantico. È vero?
È fantasia? Platone s’allontana da noi per il transito supremo e non si cura d’aggiungere nulla, anzi il suo racconto resta per sempre spezzato: "Si raccolse dunque Zeus e prese la parola…". Cosi termina il "Crizia". E quale sia stata questa parola non sapremo mai. È vero? È fantasia? insiste la domanda inquieta.
Ed è appunto questo proporsi d’un interesse vivo, d’una viva partecipazione dello spirito nostro; d’una, diciamo la parola che piace a Platone, fascinazione o incantamento; è appunto tutto ciò che Platone con sapiente gioco di prospettive ha saputo creare; ciò il Maestro voleva. E in ciò è l’essenza stessa del mistero.
Certo, chi arriva alla "trilogia incompiuta", dopo aver percorso l’intero cammino dei dialoghi, costui. vede che a ben altre affermazioni, a ben altre potenti conclusioni Platone ha abituato l’anima sua. Ma costui vede anche che, se quelle potenti sono in pieno fulgore, qui, nel mito Atlantico, parola disputante (Platone dice "logos") si atteggia in penombre, qui si accentua la voce della probabilità ove prima era la certezza: l’essenza del mistero appunto con tutte le sue caratteristiche. Tutto ciò che noi possiamo chiedere, tutto ciò che possiamo trovare è un convergere di piani, un accennare di linee, una direzione insomma; ma la certezza, forse mai. È vero? È fantasia? Le stesse indagini recenti portano ad un grado assai elevato, quasi definitivo, gli elementi della certezza. La prova tuttavia, come dicono, palmare; il "non credo se non metto le mani"; la prova sperimentale non c’è, e forse non sarà mai. È stato tuttavia detto dal Maestro vero, un altro maestri di cui Platone può dirsi certamente figura; "beati qui non viderunt, et crediderunt".
E ciò, a proposito d’una vicenda in cui parimenti si desideravano prove evidenti, si desiderava di toccar con mano, si cercavano tutti quei ripari e tutte quelle precauzioni con cui intendono munirsi quelli che si chiamano comunemente spiriti forti, spiriti positivi; gli spiriti delle ragioni solide. "Beati qui non viderunt et crediderunt".
È vero? È fantasia? È indubitabile in ogni caso l’apporto d’una sintesi; indubitabile l’apporto di particolari singoli che Platone ha liberamente aggiunto. Chi legge con attenzione e questa lettura più d’una volta ripete, finisce per accorgersi dell’esistenza di due nuclei differenti per natura. Vi è un nucleo che ha un aspetto descrittivo, quasi un testo di geografia che riferisce caratteristiche singole d’una determinata regione. Buona parte del "Crizia" appartiene a questo nucleo e ad esso appartengono anche le pagine del "Timeo". Che danno indicazioni precise circa la fonte e anticipano poi le prime notizie sull’isola o sul sistema di isole che formavano l’Atlantide, con una esattezza e con una precisione di termini tale che soltanto ai nostri giorni, dopo la scoperta dell’America, può esser convenientemente apprezzata. Certissimamente nessuno dei contemporanei di Platone (vorremmo dire: nemmeno Platone stesso che scriveva quelle parole), nessuno dei posteri Platone per molti secoli ha potuto apprezzare.
"In quei tempi lontani era possibile valicare quell’immenso mare (l’Atlantico) perché in esso era un’isola; e quest’isola innanzi stava a quel stretta foce che ha nome, come voi dite, Colonne d’Ercole. Ed era, quest’isola, più grande insieme della Libia e dell’Asia.
E chi procedeva da quella, si apriva il passaggio ad altre isole, da queste isole ad un 'grande continente' opposto, intorno a quel che veramente è mare. Le parti invece interne alla foce (il Mediterraneo) di cui parliamo, appaiono essere quasi un porto di cui sia stretta e angusta la via d’ingresso. Oh! ma quello sterminato mare a veramente mare, e la terra che lo ricinge, con tutta verità si potrà dir continente (1)".
Com’è facile accorgersi, ("il grande continente opposto") e l’America e ("quello che veramente a mare") e la parte restante dell’Atlantico dopo le isole Atlantidi vicine più all’Europa che all’America. E a parer nostro basterebbero queste poche righe per eliminare ogni possibilità di discussione. Qui non si tratta di fantasia; d’altra parte nessuno ai tempi di Platone poteva sapere ciò che qui e detto. Ma chi ha detto ciò a Platone? Ma lasciamo stare. Questo nucleo descrittivo-geografico forniva dunque a Platone un assieme non omogeneo di notizie; un seguito di dati interessanti che tuttavia, per essere introdotti nel dialogo, dovevano esser sottoposti ad unificazione. Osserviamo di passaggio, che scopo avrebbero, se puro gioco di fantasia, taluni particolari cosi precisi? I canali concentrici (2), il sistema di canalizzazione, il rito del sangue? Altri particolari minuti, inutili al tutto se non corrispondenti a verità? La scrittura presenta insomma. evidente questo nucleo descrittivo al quale si aggiunge (e qui e l’apporto personale di Platone) l’altro nucleo a carattere narrativo.
Una vicenda storica, nella quale si trovò impegnato quell’impero di cui vengono descritte le caratteristiche geografiche e politiche. Platone ha cercato di far diventare narrazione storica, quella che era descrizione geografica. E i dati della descrizione evidentemente gli erano forniti; a renderne possibile l’introduzione nel dialogo, Platone ha cercato d’accostare il motivo d’una narrazione storica: ecco il motivo della guerra degli Atlanti e della grandezza di un’Atene preistorica.
È avvenuto allora che questa parte che avrebbe dovuto avere importanza .massima è riuscita, generica e infusa di accenti particolari alla stessa speculazione dello scrittore (la descrizione d’Atene preistorica è parafrasi della "Politeia"); mentre l’altra è riuscita piena, viva, completa. Non solo ma, ancor di più, la parte storica non ha avuto sviluppo; essa è semplicemente enunciata; "compiuta infatti la descrizione dell’Atlantide, quando dovrebbe cominciare la narrazione della guerra il dialogo subitamente s’interrompe".
Pare a noi non si sia osservato abbastanza questo fatto.
Esso è una prova molto importante; esso ci rassicura di veridicità per il nucleo descrittivo. Platone ha si preparato il racconto delle guerra, ma ciò ha fatto fino al momento in cui c’era in lui viva l’attesa per esporre la parte proveniente dalla fonte sacerdotale egiziana.
Compiuta l’esposizione, il Maestro cui non potevano interessare vaghe fantasie ha troncato improvvisamente ogni cosa. Venuto insomma a mancare l’appoggio della fonte, svaniva, anche l’interesse e il dialogo e la trilogia stessa sono rimasti per: sempre incompiuti. D’altra parte ciò ch’era stato detto aveva la sua concretezza e la sua verità. Platone non solo non distrusse e frammento, ma lo corresse e lo portò a completa finitura. Il che se si osserva, non sarebbe avvenuto probabilmente, se avessero avuto importanza le sole ragioni che condussero Platone a trascurare l’ulteriore svolgersi della scrittura.

NOTE:
1. "Timeo", 24 e segg. Sarebbe da aggiungere anche l’accenno al mare dei Sargassi ("Crizia", 109a).
2. È notevole: gli storici della conquista spagnola descrivono la capitale degli Aztechi attorniata da canali e da bacini; ciò si vede dal disegno rimasto dai tempi dell’ultimo loro re. L’essenza in questi piani è un complesso intreccio d’acqua e terra in anelli concentrici.