mercoledì 10 novembre 2010

Lo spazio della storia. Antropologia, società e globalizzazione nella riflessione di Peter Sloterdijk

Drssa. Silvia Rodeschini - Università di Bologna
http://www.observacionesfilosoficas.net/lospaziodella.htm

Peter Sloterdijk, Karlsruhe 07-2009, IMGP3019.jpg

Peter Sloterdijk


Resumen
Introduzione a Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale.
Grossa parte de la opera di Sloterdijk es dedicata al tentativo di ricostruire il motivo della «sfera» nella tradizione filosofica occidentale come figura che, nell’enorme lasso di tempo che va da Platone a Leibniz e oltre, ha costituito la chiave per assicurare all’uomo quel «vantaggio climatico» che gli ha consentito di acquisire capacità plastiche, e di stabilire una distanza dalla natura. Non si tratta, tuttavia, di ricostruire le alterne vicende delle metafore che coinvolgono i corpi sferici ma di svelare la sfera come un’«immagine di pensiero» che delinea le particolari condizioni nelle quali la specie umana vive le condizioni «climatiche» autoprodotte che gli consentono di sopravvivere, a dispetto del suo mancato adattamento biologico all’ambiente, e di affinare l’intelligenza che lo contraddistingue. Le «sfere» costituiscono in quest’ottica una dimensione mediana rispetto ad altri due elementi che definiscono la posizione dell’uomo nel mondo: esse stanno a metà tra la vita nell’ambiente, intesa dal punto di vista ontologico come la presenza intorno ad un essere di fattori per lui significativi e da un insieme di condizioni che ne consentono la sopravvivenza dal punto di vista organico, e l’essere-nel-mondo come spazio di apertura all’illimitato.

Abstract
Introduction to Peter Sloterdijk, The world inside the capital.
Large part of the work of Sloterdijk is devoted to the attempt to reconstruct the reason for the 'sphere' in the Western philosophical tradition as a figure who, nell'enorme period of time ranging from Plato to Leibniz and beyond, was the key to ensuring all ' man that "climate advantage" that allowed him to acquire skills plastics, and to establish a distance from nature. It is not, however, to reconstruct the events of metaphors involving spherical bodies but to reveal the sphere as an 'image of thought "which outlines the conditions under which humans live the" climate "that the self can survive, despite its lack of biological adaptation to the environment, and to refine the intelligence for purposes of identification. The "sphere" is in this light a median size compared to other two elements that define the position in the world: they are halfway between life in the environment, understood in terms of how the ontological presence around a be significant factors for him and a set of conditions that allow survival in terms of staffing, el'essere-in-the-world as an area of open all'illimitato.

Palabras Clave
Sloterdijk, globalizzazione, capitale, Sfera, Spazio, Antropologia, Storia.

Keywords
Sloterdijk, Globalization Capital, Sphere, Space, Anthropology, History.


1. Peter Sloterdijk, l’anomalo

Le opere e gli interventi di P. Sloterdijk non hanno avuto in Italia la risonanza che hanno avuto in altri paesi europei, né in Italia l’attività editoriale per tradurli ed immettere le sue idee nel dibattito filosofico nazionale è stata sollecita come, per esempio, in Francia, ove le sue ricerche sono già da qualche anno interamente tradotte.1 La cosa un po’ sorprende per due ordini di ragioni: il primo, piuttosto banale, che l’editoria italiana non manca certo di un’esterofilia non sempre felice che spesso profonde grandi energie per mettere a disposizione del suo pubblico traduzioni di opere che vendono più per il nome del loro autore che per il loro contenuto; il secondo, forse un po’ meno scontato, è invece determinato dalla natura irriverente, mediatica e scientemente provocatoria di P. Sloterdijk.2 Si potrebbe pensare che forse, per una volta, siamo scampati a qualche tigre di carta del pensiero che ha fatto la fortuna di un editore straniero ma che noi siamo riusciti a risparmiarci, se non fosse che all’origine del dibattito pubblico suscitato in Germania dalle sue opere c’è una diatriba con un autore che in Italia come altrove non ha mai smesso di suscitare interesse, ovvero Jürgen Habermas, il quale ha stigmatizzato la figura di Sloterdijk con nomignoli come «eugenetico» e «potenziale neonazista».
Una breve ricostruzione della diatriba tra Sloterdijk e quello che appare l’indiscusso erede, almeno sul piano istituzionale, della teoria critica francofortese fungerà da introduzione a questa analisi della metamorfosi antropologica che, secondo Sloterdijk, si verifica nel passaggio dall’età moderna a quella contemporanea e cercherà di mettere in luce come l’oggetto del contendere tra i due – a parte le questioni più spicciole che coinvologono il problema del potere che un grande intellettuale può esercitare nella sfera mediatica – è costituito dalla possibilità di «criticare la democrazia».3
Il 17 luglio 1999 Peter Sloterdijk, già noto all’opinione pubblica tedesca per il successo editoriale della sua Critica della ragion cinica (1983), tiene una conferenza dal titolo Regole per il parco umano. Una risposta alla «Lettera sull’umanesimo» di Heidegger, nell’ambito di un seminario internazionale israelo-tedesco dedicato all’eredità dell’autore di Essere e tempo. In questo intervento, pubblicato nel 2001 che tuttavia circolava già in forma dattiloscritta, Sloterdijk, dopo avere discusso la nozione di umanesimo e avere rilevato i suoi caratteri nella peculiare accezione heideggeriana, propone alcune riflessioni su quei processi di «domesticazione» dell’uomo che ne impediscono l’imbarbarimento e che l’autore definisce «antropotecniche». Sloterdijk propone, in questo contesto, una distinzione tra un modello di antropotecnica primaria caratteristica dei modelli classici di formazione e determinazione sociale dei comportamenti dell’individuo4 e nuovi modelli di antropotecniche secondarie rappresentati da quegli interventi sulle caratteristiche determinate geneticamente degli uomini, che oggi si affacciano «in modo confuso ed inquietante» sull’«orizzonte dell’evoluzione».5 La giustapposizione di queste due antropotecniche, che nel testo della conferenza ha il ruolo di una notazione circoscritta sullo spettro delle possibilità autoplastiche dell’uomo, attira l’attenzione di alcuni giornalisti di importanti riviste che accusano l’autore di una «visione di orrore fascista» che si appella «alla rinascita dell’umanità attraverso lo spirito della provetta»6 e di voler «sotterrare l’epoca moderna» sviluppando «fantasie di selezione».77

Sloterdijk risponde a queste critiche ponendo al centro dell’attenzione non tanto il modo in cui i giornalisti avevano distorto il suo discorso ma accusando Habermas, sino ad allora assente dalla discussione, di avere manipolato l’opinione pubblica: secondo Sloterdijk, infatti, Habermas avrebbe esplicitamente chiesto ai due giornalisti – che erano stati suoi allievi – di stroncarlo pubblicamente.8 La mossa avrebbe potuto apparire quanto mai scorretta ed ingenuamente complottista, se non fosse che, prima, il 16 settembre sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e, poi, il 20 settembre in televisione, la lettera di Habermas a Assheuer viene resa pubblica.9
In una articolo pubblicato su «Le Monde», l’8 ottobre 1999, con il titolo Il centrismo muto e il coraggio di pensare, Sloterdijk esce dalla dimensione legata al malcostume che affligge la politica culturale dei giornali e riformula, in un quadro culturale e politico più generale, una diagnosi sullo scandalo intercorso durante l’estate.10 In quest’articolo sostiene che nel corso degli anni ’80 la società tedesca in particolare, ma anche tutte le altre società europee, sono andate incontro ad un «implosione dello spazio politico» caratterizzata da un insieme di fattori quali la sindrome della political correctness, il declino della sinistra classica di orientamento marxista e marxista-leninista, il culto dilagante del tempo libero veicolato dai media, l’estinzione di ogni potenziale visionario ed utopico nei movimenti sociali, il manierismo accademico e l’appello costante ad una non ben definita società della conoscenza, lo sgomento della popolazione alla vigilia delle elezioni di fronte al problema della scelta elettorale. Secondo l’autore questi sintomi documentano la presenza di una civilizzazione dominata essenzialmente dall’apatia, dal centro onnipresente, su cui domina una sovrastruttura mediatica spoliticizzata. In questo contesto la necessità di produrre consenso, che ha caratterizzato la politica post-bellica in Germania, ha finito col favorire il conformismo senza frontiere caratteristico dell’«era Kohl» e il totale appiattimento di quella sfera pubblica in cui il consenso si doveva democraticamente generare. Sloterdijk considera l’amministrazione del consenso caratteristica di questa fase storica e il conformismo imperante come due aspetti di una situazione nella quale nessuno dispone, né desidera disporre, di strumenti per criticare questa forma di appiattimento della democrazia.11 L’autore osserva, inoltre, che il comportamento di Habermas nei suoi confronti è perfettamente comprensibile sulla base delle sue intenzioni teoriche: la difesa ad oltranza dello spazio della «verità consensuale» dall’irruzione di quella che il maestro della teoria critica giudicava parola sofistica, ambiguamente seducente e irresponsabile. Emerge così, da questa querelle, che l’oggetto della discordia – al di là degli aspetti esteriori –riguarda una questione di grande rilevanza, ovvero la ridefinizione delle basi teoriche sulla scorta delle quali interpretare i mutamenti cui le società sono soggette. Quello che i francesi hanno, perciò, definito l’Affaire Sloterdijk è stato con ogni probabilità ingenerato dalla natura fortemente anti-convenzionale delle proposte teoriche di questo autore e dalla radicalità con la quale affronta la crisi della nozione di consenso come strumento teorico per intendere la struttura delle società contemporanee. E sono con ogni probabilità le difficoltà che si incontrano nel «collocare» politicamente questo autore che hanno costituito il maggiore ostacolo per il suo acclimatamento nel dibattito filosofico nazionale.
Sul piano formale la scelta di Sloterdijk è quella di riprendere una versione «saggistica» della filosofia che tende ad affrontare temi di volta in volta differenti, accogliendo nel discorso propriamente filosofico l’irruzione del non filosofico, sulla scorta dell’idea che proprio questa sia la peculiarità e la grande eredità della filosofia moderna. Questo autore tenta di scardinare il conformismo del linguaggio disciplinare specifico e la sua professionalizzazione per produrre una nuova analisi del dinamismo sociale, tecnologico, scientifico e artistico del mondo contemporaneo ingaggiando, così, una battaglia per la ridefinizione del «reale». Non a caso, infatti, il testo al quale qui ci si riferisce si apre con un tentativo di ridescrivere tout court i compiti della filosofia. Il mondo dentro il capitale inizia, coerentemente, con una requisitoria contro la pubblicistica che, da almeno un decennio, si occupa di «globalizzazione». Secondo Sloterdijk gran parte del feuilleton che prende in oggetto questo argomento ha mancato sostanzialmente il suo primo obiettivo: quello di definire l’oggetto del quale si occupa. L’errore, però, non è in questo caso quello di avere proceduto in modo impreciso dal punto di vista del metodo, ma piuttosto quello di non aver saputo riconoscere in questo oggetto di indagine la sua natura filosofica: secondo Sloterdijk è infatti chiaro che un’idea come quella di globo, un problema come quello di dare un nome al sistema complessivo entro il quale ci muoviamo, abbia degli addentellati filosofici, come era d’altro canto evidente in età antica quando la cosmologia era una delle discipline filosofiche per eccellenza. Le scienze politiche e sociali che sin qui hanno dominato la pubblicistica sulla globalizzazione hanno invece tentato di afferrare un oggetto filosofico come la «Terra», osservandolo un po’ ingenuamente come un processo «reale» e ineluttabile.12

Per dare un senso al termine globalizzazione, secondo l’autore, è invece indispensabile osservarlo come oggetto teorico e inserirlo nel contesto della storia degli strumenti attraverso i quali gli uomini hanno percepito la totalità del mondo nel quale vivono, il loro rapporto con lo spazio e la condizione di esistenza di questa dimensione. L’intento di Sloterdijk è perciò qualificabile ricorrendo a due importanti autori del ‘900: da un lato esso rappresenta il tentativo di sviluppare alcuni spunti presenti nell’opera di Heidegger, non nella direzione già ampiamente discussa del rapporto tra essere e tempo, ma piuttosto in quella molto meno usuale della relazione tra essere e spazio;13 dall’altro – ma in questo caso il riferimento non è esplicito – quello di portare a compimento il progetto che Deleuze e Guattari avevano tentato a partire da Mille piani e Che cos’è la filosofia?, ovvero di scrivere una filosofia che operi consapevolmente una definizione fondamentale delle possibilità dello spazio.1414
A questo fine grossa parte dell’opera dell’autore è dedicata al tentativo di ricostruire il motivo della «sfera» nella tradizione filosofica occidentale come figura che, nell’enorme lasso di tempo che va da Platone a Leibniz e oltre, ha costituito la chiave per assicurare all’uomo quel «vantaggio climatico» che gli ha consentito di acquisire capacità plastiche, e di stabilire una distanza dalla natura. Non si tratta, tuttavia, di ricostruire le alterne vicende delle metafore che coinvolgono i corpi sferici ma di svelare la sfera come un’«immagine di pensiero» che delinea le particolari condizioni nelle quali la specie umana vive le condizioni «climatiche»15 autoprodotte che gli consentono di sopravvivere, a dispetto del suo mancato adattamento biologico all’ambiente, e di affinare l’intelligenza che lo contraddistingue.16 Le «sfere» costituiscono in quest’ottica una dimensione mediana rispetto ad altri due elementi che definiscono la posizione dell’uomo nel mondo: esse stanno a metà tra la vita nell’ambiente, intesa dal punto di vista ontologico come la presenza intorno ad un essere di fattori per lui significativi e da un insieme di condizioni che ne consentono la sopravvivenza dal punto di vista organico, e l’essere-nel-mondo come spazio di apertura all’illimitato. Esse comprendono, quindi, sia la dimensione delle relazioni fisiche con la natura, sia le relazioni intenzionali costruite con oggetti che sfuggono a quella che Kant avrebbe chiamato la dimensione dell’«esperienza». Secondo Sloterdijk la costruzione di queste sfere serve all’uomo tanto per emanciparsi dai contesti nei quali si trova, quanto per «acclimatare» i suoi valori entro una più ampia visione di che cos’è il mondo.17

2. Forme della Terra come epoche della storia

Secondo Sloterdijk per interpretare la nostra epoca si rende così necessario un cambio di prospettiva sui rapporti tra la filosofia e il mondo: la filosofia non dovrebbe più esprimere hegelianamente il proprio tempo nel concetto ma piuttosto essere «il proprio spazio espresso nel concetto».18 Pur facendo eco al noto capitolo di Che cos’è la filosofia? dedicato alla «geofilosofia», la proposta va in una direzione molto diversa dal divorzio tra storia e filosofia proposto da Deleuze e Guattarì. L’idea è, infatti, quella di interpretare la dicotomia moderno-contemporaneo non in chiave temporale ma in chiave spaziale, senza tuttavia destrutturate tout court la centralità che il concetto di storia ha avuto per autori come Voltaire, Kant o Hegel.19

Al fine di approdare a questo risultato l’autore compie in tre mosse un importante passaggio interpretativo. In primo luogo, come già accennato, vincola l’età moderna ad un modo di percepire il mondo che è essenzialmente caratterizzato dall’uso della carta geografica e dal concomitante processo di espansione delle potenze europee in altri continenti; in secondo luogo individua nei media elettronici e nel trasporto aereo i nuovi vettori di percezione e rappresentazione del pianeta, caratteristici della nuova epoca. Infine, il mondo moderno viene inteso come un mondo nel quale dominano, dal punto di vista dello stile culturale, la «storia universale» e, dal punto di vista morale,20 «l’unilateralismo». In questo modo si vede emergere la cultura moderna come una cultura che tende a compiere l’impresa della conquista del mondo sotto il segno dell’unilateralismo morale e che tende a comprendersi per mezzo di quella «grande narrazione» cui si dà il nome di «storia universale». Essa fornirebbe un senso agli eventi che si sono susseguiti in larga misura introducendoli in una catena causale che conduce al primato dell’Europa sul mondo. Secondo questa linea di ragionamento l’autore definisce, per analogia, l’epoca nella quale noi ci troviamo come un’epoca che ha dovuto rinunciare ad autorappresentarsi per mezzo dei modelli di storia dell’Illuminismo e del Romanticismo e che, come tale, ha uno stile culturale, politico, etico e morale post-storico.21 La principale connotazione delle culture post-storiche viene qui, quindi, identificata con l’abbandono del modus agendi unilaterale che, invece, aveva caratterizzato il processo di globalizzazione terrestre.
Questa tesi non manca di polemicità poiché attribuisce alla cultura filosofica e politica moderna una natura parziale che risulta completamente diversa dall’interpretazione che di questa fase della storia tende ad avere, per esempio, la storia della filosofia. L’idea, infatti, che la cultura moderna sia stata essenzialmente caratterizzata da un tratto di unilateralità è in controtendenza rispetto all’idea che il Moderno sia stato un’apoteosi dell’universalismo, per quanto astratto, che mirava a superare tutti i particolarismi del Medioevo.22
A tre forme di globalizzazione, corrispondono, così, tre forme antropologiche caratterizzate da differenti tecniche di domesticazione dell’uomo e da differenti container sociali: le prime tra queste forme sono il Kosmos e l’Uranos dei cosmologi antichi, la seconda è la grande globalizzazione terrestre portata a termine in quella che, secondo questo autore, è l’«epoca moderna» vera e propria, la terza è, infine, quella che prende avvio dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, che è l’epoca della «globalizzazione elettronica». Lasciando da parte il mondo dell’antichità – che secondo Sloterdijk culmina nel viaggio descritto nella Divina Commedia – la globalizzazione terrestre e quella elettronica sono caratterizzate da medium diversi e da modelli differenti di soggettività agente. La prima unifica la Terra attraverso la circolazione di navi e rappresenta la sua unità sotto forma di carta geografica che, non a caso, rispetto all’Antichità non rappresenta più il cosmo come cielo entro il quale la Terra trova posto al riparo di «scorze» metafisiche,23 ma usa la carta geografica piana o sferica per rendere conto della totalità entro la quale l’uomo si colloca. I suoi protagonisti sono Pigafetta, Vasco da Gama e Magellano e i suoi eroi letterari Phileas Fogg – protagonista de Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne – e l’Ismaele di Melville. La globalizzazione elettronica si fonda, invece, sulla circolazione di segnali radio, l’immagine del mondo che gli uomini se ne fanno si costruisce sulla riduzione delle distanze, che tanto avevano spaventato i moderni, e su una saturazione nella reciprocità dei rapporti tra le differenti parti. Colui che l’ha tenuta a battesimo è James Aldrin, il primo astronauta che vide sorgere la Terra dall’orizzonte della Luna. Gli esponenti più tipici del nostro tempo sarebbero così tutte quelle star televisive che «sono divenute famose senza saper fare niente di particolare», poiché nella nostra epoca sarebbe maturata fino al parossismo una rottura del legame che in epoca moderna stringeva notorietà e performance, e performance e denaro.
Da questo punto di vista le differenze tra i moderni e noi non consisterebbero tanto nello statuto di verità delle scienze o nella solidità dei principi normativi con cui il mondo e la sua natura vengono interpretati,24 ma piuttosto nei differenti strumenti e nei differenti media attraverso i quali le culture hanno dato forma all’uomo e ai dispositivi che lo costituiscono e lo rendono «animale domestico».

3. Densità topologica

Scrive Sloterdijk:

Fare affermazioni a proposito della densità significa descrivere il livello di pressione della coesistenza tra particelle agenti.25

Questo concetto consente di farsi un’idea di come un’epoca e una cultura rappresentino la loro posizione nel mondo evitando due errori: in primo luogo quello di intendere lo status degli uomini sulla Terra come il prodotto di una scissione prodottasi a partire da un’unità originaria, di cui essi avrebbero fatto moralmente, teoricamente o religiosamente parte e la cui rottura li avrebbe gettati in uno stato di alienazione che perdurerà fino alla ricostituzione dell’unità; il secondo – e qui il riferimento polemico è al Levinas de Altrimenti che essere o al di là dell’essenza – è quello di considerare gli uomini universalmente disposti ad un apertura «tanto spontanea quanto obbligata […] agli altri».
Densità è un termine topologico con il quale l’autore pensa si debbano indicare le possibilità per un agente di incontrare un altro agente oppure, non ultimo, colui o coloro sui quali le sue azioni ricadono. A seconda che questa probabilità sia alta o bassa, il mondo apparirà più o meno denso. Questo concetto assume, così inteso, una notevole rilevanza nella determinazione delle possibilità di azione dell’agente,26 poiché pone al centro dell’attenzione la possibilità che le conseguenze – desiderate o meno – di un’azione vengano ricondotte al loro punto di origine.27

E’ chiaro che osservare il mondo dal punto di vista della sua densità significa mettere in rilievo e correlare diversi elementi: in primo luogo la struttura dei processi decisionali che conducono dalla teoria alla prassi e, in particolare, il modo in cui viene presa in esame la presenza di altri su cui queste azioni ricadono, in secondo luogo gli strumenti comunicativi attraverso i quali vengono percepiti interessi ed istanze in concorrenza con i nostri.28 La densità è, quindi, un concetto attraverso il quale leggere le condizioni di unificazione della specie homo sapiens entro la medesima comune antropologica che fa emergere il concetto di umanità come il risultato di un’operazione che la cultura compie ex-post. In questa interpretazione l’umanità, pur non perdendo in assoluto la sua forza normativa e morale, certo perde completamente il suo statuto di apriorità e originarietà

Ed è nell’ottica di stabilire come possono variare i set psicologici umani e i contesti politico-sociali con il variare della densità che Sloterdijk legge le trasformazioni cui è stato soggetto l’uomo tra Modernità e Contemporaneità.29 Il soggetto moderno vive in un mondo che viene, con l’inizio dei viaggio di esplorazione intorno al globo, percepito come un globo essenzialmente dominato dall’acqua,30 elemento ritenuto instabile e spaventoso ancora a metà del 19. secolo – come testimonia il celebre Ismaele di Melville –, e da una volontà di conquista e di moltiplicazione della ricchezza che trasforma radicalmente l’armamentario psicologico con il quale gli individui operano.31 Il planisfero è, infatti, la rappresentazione di uno spazio omogeneo sul quale vengono collocate e inventariate le nuove scoperte. Esso si presenta come il «catasto» attraverso il quale si stabiliscono le proprietà dei nuovi territori.32 Gli investimenti commerciali, con il loro carico di rischi, rappresentano un programma antropologico radicalmente anticontemplativo basato sull’idea che ciascuno sia artefice della propria fortuna e nell’ambito del quale gli individui non hanno più bisogno di un’immagine del cosmo al riparo della quale porsi ma, piuttosto, di un set di strumenti psicologici che gli consenta di affrontare l’ignoto, rappresentato dalle distese d’acqua del nuovo globo.
Il mondo acquatico è, in questa chiave, soprattutto un mondo a bassa densità comunicativa e percettiva: gli europei possono intendere il globo come oggetto della loro conquista e suscettibile di acquisizione, poiché le culture che incontrano vengono scarsamente percepite e sono solo marginalmente in grado di porre la loro presenza all’attenzione della rispettiva madrepatria. Esse, infatti, non dispongono né dei mezzi né delle capacità di chiedere conto al mittente delle azioni e delle decisioni cui sono sottoposti. In un mondo scarsamente denso si trovano le condizioni che rendono possibili ed ammissibili, tanto sul piano morale quanto su quello politico, quelle azioni unilaterali che consentono all’Europa di dominare la Terra nell’epoca della «prima globalizzazione».
L’uomo moderno è, da questo punto di vista, un uomo che agisce in situazioni di incertezza e che dispone delle energie psichiche necessarie a fronteggiare questo contesto. L’autore vincola, così, il concetto stesso di soggettività a questa capacità:

Essere un «soggetto» significa assumere una posizione in base alla quale l’agente può passare dalla teoria alla prassi. Questo passaggio avviene normalmente quando un agente ha individuato un movente che lo libera dall’indecisione e lo disinibisce in vista dell’azione.33

Poiché la cultura moderna dell’azione si costituisce intermente contro il concetto di eteronomia, il peculiare mutamento caratteristico della Modernità è quello di assumere un’idea di uomo che dispone della capacità di auto-fornirsi ragioni sufficienti proprio per passare dalla teoria alla prassi, l’uomo moderno è il migliore consulente di se stesso. Tipicamente moderno non è, tuttavia, solo l’agente che trova in sé le ragioni del suo agire ma che la disinibizione all’azione venga intesa come risultato di un calcolo, di un interesse. Ne segue così che

secondo la regola del linguaggio della filosofia moderna chi sa capire correttamente i propri interessi non obbedisce ad altri che alla «voce della ragione».

Con ciò l’autore intende preservare l’idea che è proprio in virtù del processo deliberativo interiore che può esservi libertà o imprevedibilità degli agenti, ma, nel contempo, situa questo problema non tanto sul piano dell’estensione universale dei diritti, quanto piuttosto su quello della natura eminentemente pragmatica sia della nozione di moralità, sia di quella di libertà. Poiché, infatti, i processi deliberativi si svolgono interamente in interiore homine, non è mai dato sapere – con buona pace dell’autore della Critica della ragion pratica – in che misura essi vadano davvero intesi come manifestazione di autonomia. L’uomo è autonomo nella misura in cui compete a lui la decisione di agire, nella misura in cui è signore e padrone delle sue passioni e delle sue azioni, non certo perché fa tutto questo da sé.34

Nella sua analisi, infatti, Sloterdijk prende in considerazione tutti quei saperi e quelle scienze che coadiuvano questo processo, rubricandole sotto il nome di «consulenze». Dalla medium che aiutava Anton Fugger a percepire la qualità dell’operato dei suoi emissari, che lui fisicamente avrebbe potuto raggiungere solo dopo giorni e giorni di viaggio per mare, al ruolo degli ideologi nella conduzione dei grandi mutamenti politici alla fine del XVIII secolo, i motivatori dell’epoca moderna hanno teso massicciamente a ricorrere alle «leggi della storia» per ottenere la disponibilità da parte dei loro «clienti» a prendere parte ad azioni violente pretese come inevitabili – nonostante il fatto che la maggior parte degli intellettuali si guardasse bene dal partecipare direttamente ai crimini che consigliavano o che approvavano.35

Con ciò Sloterdijk non intende affatto formulare una teoria che giustifichi la violenza di un’intera epoca, ma al contrario cerca di cogliere la fondamentale ambiguità che si cela nei dispositivi motivazionali tradizionalmente designati come «soggetto» e di individuare una spiegazione al fatto che azioni, da noi oggi intese come «criminali», siano state ritenute legittime per diversi secoli.
Un ulteriore elemento che mostra la natura della «moderna cultura dell’azione» è certamente il culto della genialità che matura nel corso di questo periodo. Esso non è patrimonio esclusivo dell’estetica del romanticismo ma rappresenta la tendenziale prospettiva avanguardistica che si cela nell’ambigua liason tra energia legittima ed energia criminale. Due sono essenzialmente le testimonianze che l’autore chiama in causa per definire l’«ontologia del progresso» da un punto di vista psichicho: il Raskolnikov di Delitto e castigo e l’Ismaele di Moby Dick. Se si leggono le parole che Dostoevskij attribuisce all’avvocato Porfirij al momento di tentare una giustificazione dell’omicidio compiuto da Raskolnikov36 si vede come in queste parole il delitto si presenti come il necessario prodotto di un tentativo di generare l’«uomo nuovo»,37 ove l’innovazione viene letta come il risultato di azioni che, violando la morale comune, fissano la direzione nella quale gli individui ordinari devono andare. Dall’altro Melville mostra come la scelta di Ismaele di andare per mare costituisca una terza opzione alle due, già note all’epoca che lo ha preceduto, ovvero il convento e il suicidio, a fronte di una vita ritenuta invivibile.38 Sulle superfici marittime, le energie psichiche degli agenti proiettano le eccedenze che la società europea non avrebbe potuto né saputo amministrare e si avviano a fungere da strumenti per la circolazione tanto delle merci quanto del denaro.39
E’ chiaro che l’esportazione di queste energie implica non solo una percezione dello spazio nel quale la violenza può venire seminata senza ricadere come colpa sul suo esecutore, ma che ciò è possibile solo nel contesto di una percezione dello spazio «esterno» come differente e discontinuo rispetto a quello europeo. Le tecniche di immunizzazione disponibili di fronte a questo spazio si producono sotto forma di flessibilizzazione di prodotti culturali che sono in parte nuovi e in parte già disponibili: in primo luogo le tecniche assicurative che si sviluppano nel contesto del nascente sistema capitalista e si affinano nel tentativo di calcolare matematicamente l’imprevedibilità dello spazio esterno; in secondo luogo la religione che tende a fornire copertura morale e psicologica sia in contesti di pericolo sia nell’auto-interpretazione delle conquiste come imprese con una vocazione missionaria; in terzo luogo i mandati delle autorità politiche che conferivano ai capitani l’unica autorità disponibile in grado di disciplinare e legittimare l’operato dei messi oltremare; in terzo luogo la geografia e l’antropologia esercitate come scienze che registrano le scoperte e, nello stesso tempo, le inscrivono sulla carta come proprietà di un sovrano; ed, infine, lo strumento della traduzione che imponeva la lingua dei conquistatori ai conquistati e si sforzava di stabilire un legame comunicativo in grado di dominare cognitivamente l’esperienza di un mondo che appare come una «Nuova Babilonia». Gli agenti europei che affrontano l’ignoto portano con sé alcuni prodotti della cultura europea che gli consentono di padroneggiare i contesti di rischio nei quali si vengono a trovare. Questi prodotti svolgono per loro la funzione che il cielo della metafisica antica aveva svolto prima: quello di fornire loro un riparo psicologico dai pericoli.40

In questa prospettiva, da un punto di vista filosofico, appare più vicina allo spirito dell’epoca la morale provvisoria che Cartesio formula come necessaria in condizioni di dubbio endemico piuttosto che una morale super-erogatoria come quella di Kant, non a caso considerata qui del tutto inservibile nel contesto di scelte operate a condizioni di rischio e in presenza di energie antropiche espressive.41 Secondo Sloterdijk la filosofia ha manifestato molto di rado la capacità di darsi un posto nel contesto del rischio permanente e ha continuato ad arroccarsi su posizioni di terra ferma, stentando nell’assolvere il compito di interpretare la sua epoca. La questione non è qui naturalmente quella della percezione del disordine del mondo, effettivo e cognitivo, che è presente in gran parte della filosofia moderna42, ma della modalità nella quale a questo problema si dà soluzione: sotto la traccia della costruzione di un sapere dotato di una fondazione filosofica ultima, rimane possibile individuare nella nostra tradizione filosofica un percorso di riflessioni che pone il problema della molteplicità del mondo in modo tetico e disloca l’uomo al cospetto della grande mobilità del mondo.43 Scrive l’autore:

Sul mercato delle tecniche moderne di immunizzazione si sono imposte su tutta la linea le assicurazioni con i relativi concetti e le loro procedure, di contro alle tecniche di certezza filosofiche. La logica del rischio controllato è risultata più economica e praticabile rispetto alla fondazione filosofica ultima. Di fronte a questa alternativa, la maggioranza delle società moderne ha saputo decidere in modo piuttosto chiaro. Assicurazione batte evidenza.44

4. Saturazione

L’insieme di energie e strumenti culturali coniugato alla nuova concezione del globo come territorio destinato alla circolazione di merci – che avrebbero fatto ritorno a casa sotto forma di plusvalore – costituisce la condizione, tanto psicologica quanto politica, che rende possibile l’innesco e lo sviluppo della globalizzazione marittima. Il suo andamento, la sua ricerca di spazi sempre nuovi – che una volta scoperti e svelati sul planisfero sarebbero divenuti territori di proprietà delle grandi monarchie europee – tende, nel linguaggio di questo autore, ad addensare il mondo, a riempire la sua immagine fino a saturarla e a rendere pressoché indisponbile quell’esterno che assorbiva muto i nostri eccessi energetici. La globalizzazione dell’«espansionismo europeo» tende, grazie allo sviluppo delle tecnologie nel settore dei trasporti,45 a perdere la sua natura avventurosa e a trasformare il pianeta in uno spazio tutto omogeneamente rilevato e percorribile. Il passaggio dalla globalizzazione – operata dagli antichi con strumenti metafisici – a quella prodotta dalle grandi scoperte geografiche era stato caratterizzato da un radicale cambiamento della prospettiva estetica sull’oggetto-Terra: ove gli antichi chiamavano in causa bellezza e perfezione per indicare la natura e la struttura del cosmo, i moderni avevano dovuto assumere il «brutto», l’«interessante», il «sentimentale» come nuove categorie per descrivere un mondo che gli appariva come oggetto da svelare, come territorio di una esplorazione carica di rischi.46
La globalizzazione marittima, un volta compiuta, sovverte l’idea dei primi moderni che il mondo fosse carico di molteplicità, discontinuo e sorprendente. Il compimento della registrazione delle scoperte geografiche sul mappamondo si accompagna, infatti, ad un altro processo che rovescia la natura della percezione che gli europei hanno del mondo: le rotte per la circumnavigazione del globo, l’istituzione di procedure per amministrare i nuovi territori, il consolidamento delle vie commerciali per mare e per terra sono caratterizzate da una crescente proceduralizzazione che fa perdere ai viaggi oltremare il loro aspetto di scoperte e li trasforma in routine commerciali. Ciò se indica la fine dell’epoca delle avventure per mare è lo scemare di quell’alone di ignoto che avvolgeva tanto la traversata degli oceani quanto i luoghi di destinazione. La meraviglia suscitata da continenti conosciuti verrebbe così sostituita dalla meraviglia per gli strumenti tecnici con cui ci si muove sulla superficie del globo.
Si potrebbe osservare che anche nell’età dell’oro dell’unilateralismo europeo ci sono stati casi nei quali i conquistati si sono rivolti con i toni di coloro che hanno subito ingiustizia ai loro conquistatori, o hanno trovato tra gli europei colti avvocati che hanno cercato di difenderli dalla violenza della conquista47
Nell’ottica dell’autore la storia della cartografia rappresenta una delle prove a favore dell’effettivo sviluppo di un processo di addensamento spaziale. Da questo punto di vista, infatti, il resoconto del mutamento dell’immagine cartografica del mondo che l’autore propone trova il suo pendant nell’evoluzione delle scienze geografiche che, se ancora all’inizio del ‘700 rappresentavano sulle mappe zone di terra incognita, rappresentate come spazi bianchi in attesa della registrazione di nuove scoperte, oggi registrano la presenza di una sola zona di cui non disponiamo di una carta: si tratta del deserto che ha sostituto il lago di Aral in seguito al completo prosciugamento dei suoi affluenti, le cui acque sono state impiegate ed esaurite nella coltivazione del cotone delle ex-Repubbliche Sovietiche circostanti. Un elemento analogo si incontra nella ricerca di spazi di terra emersa di cui nessuno abbia rivendicato la proprietà: oggi vi sono rivendicazioni territoriali per ogni singolo scoglio dell’Oceano e per ciascuna delle porzioni di terra che sono emerse negli ultimi anni dal disgelo della calotta artica, e si tratta in larghissima parte di pezzi di roccia e terra ghiacciata su cui vivono solo licheni.

La saturazione del sistema-mondo è, così, il risultato di un processo in cui convergono una forma antropologica, una forma economica ed una forma culturale e che compie un balzo qualitativo definitivo con la diffusione del traffico aereo e lo sviluppo delle tecnologie del settore della telecomunicazione.48 Con ciò, tuttavia, l’autore non intende affatto sostenere che il mondo contemporaneo sia un mondo essenzialmente costituito da comunicazioni, come se la forma della merce fosse divenuta obsoleta, egli cerca piuttosto di conferire al concetto di telecomunicazione un carattere «ontologico», poiché è con esso e attraverso di esso che la sfera antropica, quella economica e quella culturale definiscono la loro nuova forma49 . La actio in distans è, quindi, il medium attraverso il quale prende forma il mondo unificato.50 Il suo esercizio routinario, il nostro contesto.

5. Inibizione e seconda natura.

Caratteristica del mondo saturo è, così, l’impossibilità da un punto di vista sistemico di ignorare le conseguenze delle azioni che ricadono su secondi o terzi e di non percepire la presenza di altri esseri umani, di altri interessi che fanno resistenza a subordinarsi alle nostre priorità. I mutamenti che questa nuova circostanza impone all’agire umano sono di vasta portata e implicano un profondo mutamento proprio in quella moralità dell’agente che stava alla base del processo disinibitorio. Scrive Sloterdijk:

Un aumento della densità corrisponde alla crescita della probabilità di incontri tra centri di azione, sia nel senso di transazioni, sia nel senso di collisioni o quasi collisioni. Dove dominano condizioni di densità, le condizioni generali del traffico di merci e informazioni mutano in modo tale da richiedere un ampio cambiamento morale.51

Questo autore propone un punto di vista radicalmente antitetico rispetto all’estrema attenzione che la filosofia politica contemporanea dedica ai fondamenti morali delle strutture politiche che disciplinano la convivenza umana.52 Le strategie attraverso le quali gli uomini mostrano di tenere conto delle aspettative e degli interessi di ciascuno possono certamente venire intese come dinamiche fondate su caratteri morali propri dell’uomo, ma il significato da attribuire a questo genere di moralità non emerge sulla base di criteri normativi fondamentali radicati nella natura di qualunque essere vivente che voglia definirsi «uomo», esso viene piuttosto letto come risultato di necessità sistemiche indotte essenzialmente dal tipo di rapporto che gli uomini intrattengono con lo spazio.

Il «principio di precauzione» che governa le scelte degli individui, ingenerato dai rischi cui le proprie azioni espongono gli altri, non è divenuto irrinunciabile per un presunto afflato di giustizia che avrebbe pervaso le società e i loro cittadini a partire dal primo Dopoguerra, ma piuttosto a causa della presenza percepita e, non di rado, incombente di persone che tendono a far ricadere su ciascuno i risultati delle sue azioni.53

La morale, anche ammettendo che esista come oggetto di indagine distinto dall’etica, non è quindi lo strumento attraverso cui ciascuno si rende degno del suo rango biologico (quello di essere un homo sapiens sapiens) ma è un prodotto culturale attraverso il quale ciascuno misura le conseguenze delle proprie azioni in vista della decisione di agire. Così è chiaro che il cosiddetto principio di responsabilità,54 che ci vincolerebbe in egual misura alla preservazione del nostro habitat e a cooperare alla sopravvivenza della nostra specie, non è il risultato di un processo di assunzione di responsabilità da parte di ciascuno ma è prima di tutto un’attribuzione di responsabilità, che conformemente alla nostra epoca, viene interiorizzato come imperativo morale e che viene praticato come principio di precauzione. Esso è, quindi, un processo che riduce la morale a conseguenza di second’ordine del nuovo modus di interazione degli esseri umani.55

La responsabilizzazione dell’Occidente è in larga parte vista come il risultato di un processo di reciproca inibizione dei cosiddetti global players. Non a caso, infatti, questi ultimi sono costantemente alla ricerca di zone del mondo nelle quali le dinamiche di reciproca inibizione siano ancora ad uno stadio particolarmente involuto, che tuttavia risultano essere essenzialmente nicchie o spazi solo temporaneamente vuoti rispetto al generale statuto del mondo. In essi si continua ad agire secondo la modalità veteroeuropea in assenza di agenzie inibitrici.

La saturazione dello spazio induce negli agenti processi inibitori che acquisiscono una grande portata se osservati sul piano sociale: essi tendono ad imporre alle decisioni pubbliche dei filtri «che si occupano di eliminare le offensive unilaterali e le innovazioni dannose». Ridurre lo spazio di manovra di agenzie di potere che deliberano su questioni con vaste ricadute sulla vita di altri fa sì che il tratto unilaterale della decisione venga sempre più ridimensionato. In quest’ottica la decisione partecipata viene vista come lo strumento disponibile per garantire un generale miglioramento nelle condizioni di vita degli esseri umani. L’attrito tra gli agenti tende a ridurre la violenza del più forte.

Secondo questo autore il processo inibitorio che fonda la seconda natura degli uomini ai tempi della globalizzazione elettronica produce un effetto di apparente moralità che, in realtà, è il risultato di un vero e proprio restringimento dello spazio di manovra degli agenti. Esso è in questo senso comunicativo, ma la comunicazione non viene intesa come un territorio in cui attori di pari forza si scambiano informazioni ma piuttosto come la dimensione in cui gruppi si fronteggiano per obbligarsi reciprocamente a desistere dall’agire in vista di un interesse unilaterale. L’ironia sul concetto di «riconoscimento reciproco» – cui più d’uno conferisce il compito di configurare gli agenti sul piano comunicativo – è, a questo punto, quasi scontata: esso non ha natura dialogica, non tende a conferire dignità agli interlocutori, non procede in modo disinteressato e non genera comunanza. L’inclusione dell’altro è la cifra della nostra epoca solo se la si intende come l’ingresso nell’orizzonte di ciascun individuo di molteplici istanze inibitrici che si impongono sulle chance di azione, riducendone lo spettro.56
Sul piano politico il sintomo più evidente di questo stato di cose è la complessità caratteristica di tutte le agenzie più o meno istituzionali destinate a prendere decisioni: esse giungono a includere le più svariate competenze e i rappresentanti dei più svariati interessi, non di rado sino al punto di rendere le decisioni impossibili. Per esemplificare i fenomeni politici che l’autore intende così spiegare si può utilmente ricorrere ad un esempio tratto dalla politica locale italiana. L’amministrazione comunale di Firenze ha recentemente deciso di costruire tre linee di tram allo scopo di potenziare la mobilità pubblica, nella speranza di ridurre la mole del traffico privato di automobili nell’area urbana, e l’inquinamento che esse portano con sé. Dopo avere seguito la prassi prevista per legge per deliberare in favore di un’opera pubblica (che comprende gli studi di impatto ambientale, gli studi di fattibilità, la modifica del piano regolatore, la gara d’appalto etc.) la giunta comunale ha sottoposto il progetto al consiglio comunale che lo ha approvato. Con l’inizio dei lavori l’amministrazione si è trovata a fronteggiare il malcontento di numerose categorie professionali e di diversi comitati, tanto dei quartieri ove le linee del tram transiteranno quanto di ambientalisti, amici dei monumenti della città e altri, e non da ultimo dei partiti di opposizione entro il consiglio comunale. Gli argomenti con cui ha dovuto confrontarsi vanno dal calo delle vendite nei negozi siti a ridosso dei cantieri alle lamentele per il fatto che la costruzione delle linee del tram avrebbe reso necessario l’abbattimento di alcuni alberi piantati nel Ventennio per commemorare i caduti della Prima Guerra Mondiale e che i tram ultramoderni avrebbero deturpato il paesaggio urbano nei pressi di Piazza Duomo, luogo di culto degli amanti del Rinascimento. I dibattiti pubblici sono stati numerosissimi e varie le iniziative del comune per rendere la realizzazione del progetto appetibile per i cittadini e sostenibile per coloro che avrebbero subito i maggiori disagi con l’apertura dei cantieri (dallo stanziamento di fondi per sostenere i commercianti danneggiati dal ridotto passaggio dei clienti al referendum per decidere se gli alberi che avrebbero sostituito quelli abbattuti sarebbero stati tigli, querce o altro). L’edificazione della Reggia di Versailles come quella della chiesa di San Pietro a Roma e la decisione da parte di Pietro II di avviare i lavori per una ferrovia che congiungesse Mosca con Vladivostok certo suscitarono meno querelle e ciò in virtù di un contesto di densità radicalmente differente.57 Con ciò il concetto di densità intende mettere in rilievo il fatto che, a livello pubblico, l’attenzione dedicata alla plurivocità degli interessi coinvolti in una decisione politica non è il risultato di una moralità della quale noi disponiamo per natura ma il prodotto di un assestamento della nostra disposizione psicologica determinato essenzialmente su basi culturali: sono la nostra percezione del mondo, il carattere del rapporto che intratteniamo con lo spazio entro il quale viviamo e l’orizzonte nel quale si inseriscono le nostre aspettative che ci inducono a prendere gli altri un po’ più sul serio.58

6. La vita nel palazzo di cristallo.

L’imperativo alla mobilità che si esprimeva nelle avventure dei viaggi d’Oltremare e che si è stabilizzato sotto forma di mobilità delle merci, delle persone e del denaro nello spazio omogeneo del mondo ha mutato gli strumenti con i quali gli uomini hanno preso distanza dall’ambiente e hanno governano la loro coabitazione. Il radicamento nei segni statici di appartenenza che caratterizzava le società premoderne, la piramide verticale della differenziazione sociale e della gerarchia celeste, con la quale la religione conferiva senso al mondo, vengono sostituite da una crescente orizzontalità: l’uomo diviene essenzialmente un «detentore di potere d’acquisto» che ha messo in scena il suo «sogno a occhi aperti di immunità onnicomprensiva entro un comfort altamente stabile e crescente».59 Secondo Sloterdijk è, infatti, osservando la funzione che il denaro assume nel delineare i rapporti tra individuo e mondo che si può intendere il mutamento che li ha investiti. Scrive l’autore

Se riassumiamo ciò che sappiamo del grande passaggio all’universo del denaro, risulta in che misura tutte le dimensioni determinanti dell’esistenza vengano modificate dalla mediazione monetaria: abbiamo accesso ai luoghi soprattutto in qualità di acquirenti di titoli di trasporto; abbiamo accesso ai dati del tempo soprattutto in qualità di fruitori di media; abbiamo accesso a beni materiali soprattutto come titolari di metodi di pagamento; e raggiungiamo le persone soprattutto nella misura in cui ci possiamo permettere l’ingresso negli scenari di possibili incontri.60

Il compimento della globalizzazione marittima ha significato perciò non solo l’universale raggiungibilità delle merci – in base alla quale il concetto di merce rara è pressoché stato abolito – ma anche l’ascesa del denaro a strumento principe per la definizione dello spazio politico e psicologico nel quale gli individui agiscono e scelgono.61 Ciò non tanto nel senso che oggi viviamo in una società universalmente mercificata – in cui non vi è nessun valore d’uso che non sia dotato di un corrispettivo valore per lo scambio – ma soprattutto nel senso che nelle società del benessere esso costituisce anche il principale strumento attraverso il quale stabilire l’accesso alle chance di vita e alle opzioni esistenziali. Secondo Sloterdijk le società contemporanee sono società nelle quali.

l’intreccio magico della sfera del denaro […] dota ciascun singolo agente di un incommensurabile eccesso di un’offerta complessiva di beni straordinariamente eccedente le possibili prestazioni di ciascuno nell’auto approvvigionamento.

Il denaro viene cioè assunto in questa analisi non solo quale medium per eccellenza per gli scambi tra agenti ma soprattutto quale strumento in grado di sgravarli da ogni problema e da ogni necessità: gli spazi in cui il potere d’acquisto è abbondante non sono più dominati da concetti come la scarsità e la necessità.
L’ipersaturazione delle aspettative e dei desideri prodotta dal Welfare State e la funzione della moneta nelle interazioni uomo-mondo sembrano i principali vettori che conducono a società che soffrono in modo generalizzato di noia. Essa non è il risultato di un processo di imbarbarimento della popolazione ma il risvolto di un processo di civilizzazione che ha prodotto società nelle quali in generale gli individui sono completamente sgravati da ogni rischio e dalla necessità di performance di un qualsiasi tipo.
Cinque sono gli aspetti delle società del benessere che mettono in rilievo questa disposizione psicologica che fa da pendant all’abbondanza di merci e di denaro in circolazione nelle nostre società: il Welfare State che tende ad abolire – grazie al principio redistributivo e allo storico vincolo tra economia capitalistica e stato – tutte le condizioni di emergenza economica; la decadenza del modello storico di mascolinità che prima associava ad un sesso il compito di risolvere il problema della scarsità dei beni ma ora è quasi completamente eroso; l’espansione delle procedure assicurative ad un grado sistemico al fine di sgravare ciascuno da qualsiasi onere in caso di incidenti, malattie o coinvolgimento in catastrofi naturali; i nuovi media che garantiscono l’accesso a saperi che non contemplano più, da parte dei loro fruitori, di particolari processi cognitivi, poiché rendono accessibili i contenuti attraverso procedure talmente semplificate da rendere arcaico il concetto di Bildung;62 la notorietà, prima conferita ad un’agente in base alla natura straordinaria della sua performance, che diviene il prodotto della semplice attenzione mediatica.
La società del benessere, che si identifica a livello sistemico con l’Europa – ma che certamente comprende le elité danarose di tutto il mondo –, viene letta come società fondata su uno sgravio permanente e costituisce lo sfondo sul quale leggere la tipologia di stress che la caratterizza. Essa non è, infatti, priva di turbolenze: quello si è qui descritto costituisce solo lo sfondo sociale e l’attitudine psicologica fondamentale con la quale gli agenti affrontano i loro rapporti con il mondo. Vi sono, però, due importanti elementi che, per un verso, mettono in forma questo modello sociale e, per un altro, gli consentono di stabilizzarsi, e sono lo stress e la cronica esclusione di grandi fette della popolazione mondiale da questo comfort e dalle sue chance. Infatti, secondo l’autore, sullo sfondo di «un’esistenza che nel suo milieu trova pace permanente, approvvigionamento permanente e intrattenimento permanente», lo stress costituisce un elemento che «tonifica la collettività», esso, tuttavia, può apparire unicamente sotto forma di uno sgravio mancato e costituisce un elemento di sensibilizzazione che tende a venire compensato con uno sgravio ulteriore. Tutti gli sgravi tendono così ad apparire come misure atte a ridurre lo stress: nel contesto di una società basata sullo sgravio generalizzazato, tuttavia, esso è entrato nell’epoca della sua produzione artificiale. Tanto la natura mediatica della percezione delle minacce che incombono sulla nostra vita, quanto il definitivo divorzio della disponibilità di denaro dal lavoro e dalla performance mostrano che lo stress è il risultato di un processo artificiale che può venire compreso unicamente se si vedono gli individui come essenzialmente dediti ad un consumo iperbolico e come immersi in un saturato soddisfacimento dei bisogni.63 Solo in una società dello sgravio generalizzato poteva fare la sua comparsa un concetto generico di stress. Da questo punto di vista, secondo l’autore, è possibile leggere la natura dell’atmosfera caratteristica degli interni del capitale: la sua ambivalenza cronica dipenderebbe dalla continua presenza di segnali d’allarme che vengono repentinamente convertiti in processi di sgravio. Nessun allarme dura, quindi, mai particolarmente a lungo.
Il secondo elemento perturbante che si staglia in quest’ottica sull’orizzonte delle «società viziate» è costituito dalle figure degli esclusi dagli interni del capitale. Il «mondo globalizzato» qui descritto, che consente ai suoi abitanti di percepire lo spazio come omogeneo e il mondo come un luogo nel quale muoversi liberamente senza mai uscire dalle condizioni di comfort alle quali è abituato, non implica, come del resto è ovvio, che l’enorme spazio indoor nel quale si muove sia privo di confini: i suoi confini si presentano essenzialmente sotto forma di discriminazione tra chi detiene e chi non detiene potere d’acquisto.64 Le società del benessere vengono così viste come navi sul mare magnum della povertà nonostante il fatto che al loro interno siano ampiamente diffusi due concetti che si rivelano essere puramente retorici: quello di umanità e quello di onni-inclusività.65 Alle attuali condizioni energetiche e politiche, infatti, non è possibile che le condizioni di vita di un terzo circa del genere umano vengano estese a tutti e che l’idea di umanità, con il carico di diritti che essa comporta, venga trasposta sul piano operativo. Vista in questa chiave, alla critica globalizzata non resta altra via se non quella di esportare ovunque «l’unità di misura per valutare la povertà ma non gli strumenti del suo superamento». Essa manca, dunque, ampiamente il suo obiettivo.

7. Storia e postistoria

Nel contesto di questa argomentazione la storia viene colta sotto un duplice aspetto, cioè per un verso come prodotto della cultura scritta con caratteristiche determinate e come contesto politico delle azioni di coloro che vi contribuiscono – o pensano di contribuirvi. E’ infatti storico sia lo sguardo che l’epoca moderna ha su se stessa, sia il modo in cui i suoi agenti si muovono nel nuovo spazio che si apprestano a creare. Gli attributi conferiti alla storia come prodotto della cultura moderna sono contemporaneamente gli attributi del contesto politico nel quale gli individui agiscono e viceversa.

E’, innanzitutto, rilevante notare come l’autore scelga tra le numerose accezioni del termine storia proprio quello di Weltgeschichte, quella storia universale che ha visto in Hegel forse uno dei suoi più eminenti sostenitori. Come è noto la storia universale hegeliana è una ricostruzione operata con un concetto di ragione che si pretende molto forte – un concetto sistematico che contiene per intero esplicitati tutti gli attributi di una Vernunft che è razionale e reale ad un tempo – e che introduce un ordine nella miriade degli eventi passati proprio grazie a questa nozione di ragione. Essa è universale unicamente nella misura in cui la sua razionalità è in grado di contenere e ricondurre ad unità non solo ogni forma di differenza e contraddizione ma anche ogni forma reale di conflitto. La sua matrice è invece particolare poiché la razionalità politica che vi sta alla base è chiaramente il prodotto di eventi circoscritti nel panorama del mondo moderno (ovvero il contesto politico di quello che Hegel chiama il «mondo germanico» e che non è impoprio identificare con l’Europa).
La plausibilità di questo costrutto teorico, e del suo taglio germano-centrico, mostrerebbe – secondo questo autore – la natura unilaterale tanto di questa disciplina quanto del set psicologico circolante nella cultura europea moderna. La storia universale non avrebbe remore, infatti, a giustificare razionalmente la violenza o la guerra non per malafede ma per la percezione del mondo che vi sta alla base. Essa è stata, infatti, in grado non solo di giustificare un’insieme di azioni ma anche di contribuire alla creazione dell’idea che vi sia un’unica Terra sulla quale tutti si trovano sotto l’egida della nozione di spazio omogeneo. Quello che gli abitanti del mondo denso chiamano unilateralismo è una categoria del tutto sfuggente per chi ha vissuto in epoche nelle quali la trasformazione di un’isola come la Tasmania in una colonia penale di uno stato che si trovava dalla parte opposta del globo non suscitava sufficiente malcontento da spingere l’imperatrice di turno a farne un parco naturale. La storia universale è un epos plausibile solo per l’epoca della globalizzazione marittima.66 La sua natura auto-centrata è insostenibile e la sua funzione psico-politica risulta esaurita a partire dall’ondata della decolonizzazione che ha travolto gli ultimi imperi nel secondo dopoguerra.
Bisogna tuttavia prestare attenzione ad un fatto: la post-storia, così definita, non intende rappresentare il mondo così com’è quale il teatro in cui il liberalismo trionfa senza più nemici – come già fece Fukuyama nel suo La fine della storia e l’ultimo uomo –, ma piuttosto un contesto che de facto è dominato, sul piano psicologico, dalla logica di sgravio del denaro e, su quello pubblico, dalle difficoltà di decisione. Esiste certamente una violenza post-storica con la quale gli agenti sulla scena si colpiscono e si confrontano, ma tanto la loro possibilità di auto-giustificazione quanto il loro modus operandi è del tutto difforme dall’unilateralità storica. L’uso che i sistemi telecomunicativi fanno delle immagini di questa violenza, il modo in cui vengono percepite nella sfera dell’infotainment e la prospettiva nella quale si inseriscono sfruttano scientemente il contesto del mondo denso e non sono in grado di strutturarsi – se non per minoranze troppo esigue – come un’alternativa politica o come un’opzione «storica».67

Con questa idea l’autore non mira a riformulare la già nota critica alla natura eurocentrica della cultura occidentale. L’impianto segnatamente unilaterale della cultura europea e del set psico-politico di cui essa dispone viene considerata in questa ricerca un dato di fatto, una sorta di evidenza che non ha bisogno di venire giustificata. Essa piuttosto, deve venire indagata nelle sue implicazioni teoriche e psico-sociali per poter, così, disporre di un concetto di uomo moderno che possa fungere da metro di paragone per l’uomo contemporaneo. L’unilateralismo non è, infatti, un attributo della politica europea in quanto tale ma, piuttosto, un carattere dell’antropologia che rende possibile i progetti politici delle potenze che portano a compimento il processo di globalizzazione marittima. L’esistenza di una forma antropologica comune non deve venire fraintesa come una forma di coordinamento politico degli attori sulla scena: le grandi narrazioni disponibili sono, infatti, accomunate da alcuni concetti di fondo ma non da un «piano comune di conquista europea». Le potenze coloniali, infatti, non hanno mai avuto istanze di coordinamento che andassero al di là della condivisione del mappamondo: da questo punto di vista l’accusa di eurocentrismo si basa sull’individuazione di un soggetto politico letteralmente inventato ex-post, che tenta di raccogliere sotto la medesima etichetta progetti che, al momento del loro compiersi, si presentavano in realtà come in netta competizione tra loro, tanto che.

l’Unione Europea è divenuta possibile solo quando tutte le nazioni che ne fanno parte avevano fatto il loro ingresso in una situazione post-imperiale.

Il presente dell’Europa come soggetto politico e il ruolo che in essa viene svolto dalle scienze storiche vengono qui chiamate a testimoniare il possibile statuto della storia in un orizzonte postistorico. Essa si presenta oggi in due varianti fondamentali: la prima è quella che ricostruisce la storia di qualsiasi argomento, testimoniando il «passaggio di ogni tipo di passato cristallizzato in materia fluida da plasmare, pronta per la history of everything», la seconda è quella «histoire moralizzata» che si occupa di raccogliere i dossier sugli orrori di cui le ex-potenze europee si sono rese responsabili.
La prima si presenta come una sorta di racconto che tenta di trasformare catene di eventi scelte più o meno a caso in «storia», non esplicitando mai in modo univoco che questo «punto di vista storico» non ha nulla a che vedere con ciò che prima assumeva questo nome e che finisce, dal punto di vista culturale, nel non svolgere nessun ruolo. Essa è la parodia della Weltgeschichte che riduce la nozione di storia a quella di una mera cronologia vincolata ad un tema specifico e mostra quanto l’esercizio di ricordare sia divenuto del tutto irrilevante in una prospettiva post-storica.68

La seconda, intesa come «discorso moralmente orientato sul passato», sarebbe invece una disciplina pienamente rispondente ai caratteri del mondo denso. Essa, infatti, manifesta la riconduzione di azioni unilaterali agli eredi dei collettivi politici che le avevano compiute, il suo fine è, generalmente, quello di porre in evidenza gli orrori del passato, al fine di scongiurare la loro ripetizione e costituisce così

l’autorità magica mondiale che tiene d’occhio gli atti della molestia dell’uomo contro l’uomo.69

Con essa la storia continua ad avere la funzione autoplastica che aveva avuto per i collettivi politici moderni ma è chiaro che la sua funzione mitopoietica e mitodinamica è radicalmente cambiata e risulta esinta nella sua accezione moderna.

Resta aperto qui il problema di quali siano gli strumenti culturali e politici attraverso i quali questo paradigma interpretativo ridefinisce la possibilità di condizioni di vita accettabili nel contesto della pressione cooperativa imposta dalla densità. Nel delineare questa prospettiva Sloterdijk ritiene certamente, come più sopra accennato a proposito delle forze che producono la compresenza sincronica a ciascuno del resto dell’umanità, che il trend nel quale ci troviamo sul piano antropologico non è quello di una benevola disposizione verso gli altri ma, al contrario, che è probabile che questa pressione dia il via ad un ondata «misantropica» senza precedenti e che i perimetri della «domesticità», che gli stati nazionali70 erano stati in grado di tracciar nel corso degli ultimi due secoli, siano stati largamente erosi nella percezione che gli uomini hanno della propria collocazione e della propria possibilità di sentirsi a casa propria in un luogo. Su queste premesse l’individualismo, da più parti indicato come tratto caratteristico delle società contemporanee, rivela la sua funzione immunologia:71

i singoli individualizzati si comportano come se fossero pervenuti all’idea che ci si trova all’optimum immunitario non se si assume il sé “il mondo” in modo molteplice, ma piuttosto se si definiscono i contatti con esso in modo molto ristretto.72

Le soluzioni possibili non vanno, quindi, tanto ricercate in progetti di livellamento simmetrico delle chance e delle aspettative ma devono mirare a ridefinire il design di questi dispositivi immunitari nel loro radicamento in una dimensione asimmetrica come quella della vita e della localizzazione.


Dra. Silvia Rodeschini
Svolge dal 2004 attività di ricerca in storia della filosofia presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna .
Ha conseguito il titolo di dottore con un lavoro sui manoscritti hegeliani del periodo berlinese dedicati alla filosofia della storia e, attualmente, porta avanti queste ricerche nel tentativo di delineare il percorso che ha condotto alla ricezione europea di questa parte del sistema.
Accanto agli interessi hegeliani si è dedicata alle questioni dibattute nell’ambito del contrattualismo contemporaneo, alle loro radici nella tradizione moderna e alle teorie delle passioni implicite in questi modelli di politica.
Ha condotto le sue ricerche presso alcune istituzioni italiane (Università di Bologna, Università di Pisa, Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco) e tedesche (FernUniversität Hagen, Hegel-Archiv).
Principali pubblicazioni

Monografie
Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel, Macerata, Quodlibet, 2005.
Saggi
Dialettica e sistema nel pensiero di Hegel, in Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi, a cura di Alberto Burgio Macerta, Quodlibet 2007, pp. 153-174
La nozione di conflitto nella Theory of Justice di John Rawls. I sintomi di un universalismo acritico, «Filosofia politica», 2/ 2007, pp. 229-255
Hegel in America. Un dibattito su razionalità pratica e sistema, «Uno-Molti», 1 (2007), pp. 107-120
Das Problem der Beziehung zwischen Subjekt und Staat in der Philosophie der Weltgeschichte: Die moderne Subjektivität und ihre geschichtliche Kraft, in Glauben und Wissen, Teil II, a cura di Andreas Arndt, Karol Bal e Henning Ottmann, «Hegel-Jarhbuch», 2004, pp. 275-279
Volksgeist e Volkswerk. Struttura sistematica e significato politico della filosofia della storia di Hegel, «Pre-Print», 2004 (26), pp. 173-214
Il problema della rappresentanza nei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, «Dianoia», 2002 (7), pp. 177-204

Traduzioni
Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, Roma, Meltemi 2006
Niklas Luhmann, Il paradigma perduto, Roma, Meltemi 2006

Philippe van Parijs, Il riflettore e il microfono. L’impresa può e deve essere socialmente responsabile?, «Quaderni di Fabbrica Ethica», 1 (2003), pp. 53-60

Università di Bologna - Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia


1 Fino ad oggi sono state tradotte in italiano buona parte delle sue opere [Critica della ragion cinica, traduzione parziale, Milano, Garzanti 1992; l’ultimo capitolo di Sphären II con il titolo di L’ultima sfera, Roma, Carocci 2002; Non siamo ancora stati salvati. Saggi su Heidegger, Milano, Bompiani 2004; Il mondo dentro il capitale, Roma, Meltemi 2006; Terrore nell’aria, Roma Meltemi 2006; Derida egizio, Milano, Raffaello Cortina 2007; Ira e tempo, Roma, Meltemi 2007]. Manca ancora una traduzione di quella che, certamente, è la sua impresa più rilevante, ovvero la trilogia intitolata Sphären [Sphären I, Blasen, Microsphärologie del 1998, Sphären II, Globen, Macrosphärologie del 1999 e Sphären III, Schäume, Plurale Sphärologie del 2004, tutti pubblicati da Suhrkamp].
2 P. Sloterdijk è, in Germania, quello che in Italia si chiama un «intellettuale presenzialista». Solo per citare due esempi emblematici nell’estate del 2006, in occasione del campionato mondiale di calcio, la rivista «Der Spiegel» ha ritenuto opportuno pubblicare una sua intervista a proposito dei calciatori come «eroi del mondo moderno» nel contesto di un numero quasi interamente dedicato all’imminente evento sportivo; Sloterdijk è inoltre conduttore, insieme a Rudiger Safranski, di una trasmissione televisiva con cadenza mensile dedicata alla discussione filosofica di temi di attualità politica intitolata Im Glashaus. Das philosophische Quartett per il canale tedesco ZDF (le trasmissioni sono integralmente disponibili sul sito di ZDF www.zdf.de/ZDFde/inhalt/8/0,1872,1021352,00.html).
3 Per una ricostruzione dettagliata del dibattito v. l’intervista a Sloterdijk pubblicata sulla rivista «Multitudes», Vivre chaud et penser froid, http://multitudes. samizdat.net/artiche.php3?id_artiche=209; G. Bonaiuti, Introduzione a Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit. pp. 9-27; P. Sloterdijk, Die Sonne und der Tod, Dialogiche Untersuchungen mit H. -J. Heinrichs, Suhrkamp, Fankfurt a. M. 2001.
4 Ne La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung (in Non siamo ancora stati salvati, cit., pp. 113-184, in particolare p. 158) le antropotecniche primarie vengono così descritte: «Delle tecniche di formazione dell’uomo che agiscono a livello culturale fanno parte le istituzioni simboliche come le lingue, le storie di fondazione, le regole matrimoniali, le logiche della parentela, le tecniche educative, la codificazione dei ruoli per sesso ed età e, non da ultimo, i preparativi per la guerra, così come i calendari la divisione del lavoro: tutti quegli ordinamenti, tecniche, rituali e abitudinarietà insomma con cui i gruppi umani hanno preso ‘in mano’ da soli la propria formazione simbolica e disciplinare».
5 Regole per il parco umano, in Non siamo ancora stati salvati, cit., p. 260.
6 Si tratta delle accuse formulate da Reinhard Mohr né Der Philosoph Peter Sloterdijk propagiert «pränatale Selektion» und «optionale Geburt»: Gentechnik als angewandte Gesellschaftskritik. Seine jüngste Rede über “Menschenzucht” trägt Züge faschistischer Rhetorik, «Der Spiegel», 6 giugno 1999.
7 T. Assheuer, Das Zarathustra Projekt. Der Philosoph Peter Sloterdijk fordert eine genetische Revision der Menschheit, «Die Zeit», 36, 2 settembre 1999.
8 Lo fa in una lettera aperta al settimanale «Die Zeit» intitolata Die kritische Theorie ist tod, pubblicata il 9 settembre 1999.
9 Nel frattempo, il 16 settembre 1999, Habermas pubblica su «Die Zeit», nella rubrica dedicata alle lettere dei lettori, una replica a Sloterdijk nella quale sostiene che quest’ultimo sovrastimerebbe il suo interesse per lui e biasima il tono di auto-proclamata genialità di Sloterdijk, al quale la generazione degli studiosi del Dopoguerra aveva scientemente rinunciato per promuovere una discussione ritenuta più conforme al nuovo modello democratico.
10 Anche Habermas tornerà nel 2001 sui temi di cui il dibattito si è occupato con Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik? Sui dubbi suscitati da questo testo in un intellettuale italiano certamente affezionato alla figura di Habermas v. L. Ceppa, Postfazione a Il futuro della natura umana, Torino, Einaudi 2002.
11 Sulle alternative per descrivere i processi politici si veda per esempio Zorn und Zeit, nel quale Sloterdijk descrive la politica novecentesca alla luce dell’uso e dell’amministrazione dell’ira negli insiemi sociali.
12 Per una ricognizione dell’uso del termine «globalizzazione» e le sue ambiguità v. D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma, Laterza 2004. Sulla natura ideologica del termine ha già posto l’accento P. Bourdieu in Controfuochi2: per un nuovo movimento europeo, Roma, Manifestolibri 2001.
13 P. Sloterdijk, «Il Dasein ha una tendenza essenziale alla vicinanza». Note in margine alla dottrina heideggeriana del luogo esistenziale, in Non siamo ancora stati salvati, cit., pp. 319-325, in particolare p. 319: «Solo pochi interpreti di Heidegger sembrano aver capito che sotto il sensazionale titolo programmatico di Essere e tempo, si nasconde anche una trattazione potenzialmente rivoluzionaria di essere e spazio. Mentre ci si è concentrati soprattutto sull’analitica esistenziale del tempo in Heidegger, si è per lo più ignorato che questa si radica in una corrispondente analitica dello spazio, e si è ignorato altrettanto che entrambe si fondano su un’analitica esistenziale del movimento. Ne consegue che mentre sulla dottrina della temporalizzazione e della storicità – l’ontocronologia – si può leggere un’intera biblioteca, sulla sua dottrina della motilità, o ontocinetica, esistono solo alcune trattazioni, e sui suoi approcci a una teoria della spazializzazione originaria dello spazio, o ontotopologia, non esiste nulla tranne irriferibili parafrasi pietistiche».
14 Scrivono Deleuze e Guattarì in Che cos’è la filosofia?, p. 81: «La terra non è un elemento tra gli altri: riunisce tutti gli elementi in un’unica presa, ma si serve dell’uno e dell’altro per deterritorializzare il territorio», p. 80; «Pensare consiste nel tendere un piano d’immanenza capace di assorbire (o piuttosto di “adsorbire”) la terra».
15 P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit. p. 137: «Nel nostro caso l’effetto-serra portò a delle conseguenze ontologiche: si può mostrare plausibilmente come da un essere-nell’-ambiente-serra si sia potuti passare a un essere-nel-mondo umano». Certamente quello «climatico» è uno dei principale campi semantici ai quali questo autore attinge per ridescrivere il rapporto degli uomini con lo spazio, accanto a questo in un’opera più recente come Ira e Tempo [Roma, Meltemi 2007, in particolare p. 28 sgg.] è apparso quello della scienza delle finanze.
16 Alla base della visione che questo autore ha dell’homo sapiens vi è l’idea che nel corso dell’evoluzione sia stata la natura neotenica della nostra specie a moltiplicare le nostre capacità autoplastiche ed adattive. Tra i testi classici sulla «neotenia» v. L. Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Jena, Fisher 1926; tra le ricerche più recenti si ricorda C. Schmölders, Das exzentrische Blick. Gespräch über Physiognomik, Berlin, Akademie 1996.
17 Un aspetto rilevante della teoria di Sloterdijk, che qui verrà preso in analisi solo marginalmente, è quello della natura sintomatica dei modelli architettonici rispetto alla percezione dello spazio. Il mondo dentro il capitale, cit., p. 35: «La filosofia può e vuole essere esercitata a regola d’arte come se fosse una quasi-scienza delle totalizzazioni e delle loro metafore, come una teoria narrante della genesi dell’universale e infine come meditazione sull’essere-in-situazioni – ovvero sull’essere-nel-mondo; a questo do il nome di “teoria dell’immersione” o teoria generale dell’essere-insieme e fondo, a partire da ciò, l’apparentamento della filosofia più recente con l’arte dell’installazione», v. anche Sphären III, cit., p. 501-534, 9801-802.
18 Il mondo dentro il capitale, cit., p. 31.
19 E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, Milano, RCS 20045, in particolare pp. 185-258. Su affinità e divergenze nella definizione del rapporto tra storia e filosofia in Deleuze e Hegel mi permetto di rimandare a S. Rodeschini, Storia ed evento. Un’ipotesi interpretativa della lettura deleuziana di Hegel, in Deleuze e il Canone, a cura di F. Cerrato, M. Iofrida e A. Spreafico, Bologna, Clinamen, in preparazione.
20 Per la definizione della nozione di morale ci si rifà qui alla particolare accezione in cui essa ricorre nell’opera di Niklas Luhmann, v. Il paradigma perduto, Roma, Meltemi 2006.
21 Sulla natura definitivamente post-storica delle società contemporanee, se Il mondo dentro il capitale può lasciare qualche dubbio si veda Ira e tempo, cit., p. 54: «Nei suoi punti fondamentali, il modus vivendi dell’Occidente e delle sue culture affiliate, è, in senso tecnico, post-storico (cioè formalmente non più orientato all’epos e alla tragedia; e pragmaticamente non più costruibile sulla base dei successi di azioni dallo stile unilaterale) e, allo stato attuale delle cose, non si può riconoscere da nessuna parte un’alternativa che potrebbe rilanciare il ritorno nel copione della storia. Specialmente il cosiddetto terrorismo globale è un fenomeno del tutto post-storico».
22 Questa idea, seppur minoritaria, non manca di illustri sostenitori. A titolo di esempio si vedano Z. Baumann, Legislators and Interpreters. On Modernity, Post-Modernity and Intellectuals, Cambridge, Polity Press 1987; J. A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, London, Allen & Unwin 19503.
23 Aristotele, Fisica, 212b. Per la ricostruzione dell’immagine del mondo antico l’autore si riferisce a D. Mahnke, Die unendliche Sphären und Allmittelpunkt, Halle 1937 [rist. Frommann-Holzboog, Stuttgat-Bad Cannstatt 1966]. Un interessante contributo su questo argomento è fornito anche da A. Scafi in Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden, Milano, Mondadori 2007
24 Per un’acuta critica della natura indeterminata delle categorie di moderno e post-moderno v. P. Rossi, Paragone tra l’ingegno dei moderni e quello dei post-moderni, Bologna, Il Mulino 1989.
25 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 229.
26 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, p. 238.
27 E’ possibile rintracciare un riferimento ai mutamenti indotti nei rapporti tra uomini proprio dalla «densità» delle loro interazioni nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini di Rousseau (edizione a cura di V. Gerratana, Roma, Editori Riuniti 1968, in particolare la seconda parte del Discorso, pp. 133 sgg.); su questo tema v. B. Accarino, Questioni di confine, Roma, Manifestolibri 2007, p. 34.
28 Non a caso l’autore sostiene che il moderno concetto di telecomunicazione è una vera e propria grandezza ontologica poiché costituisce il «compimento pratico dell’addensamento», ivi, p. 230.
29 Tra gli autori che hanno letto la globalizzazione come processo di addensamento dello spazio, seppur in prospettive divergenti rispetto a quella di questo autore, si vedano I. Clark, Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, Bologna, il Mulino 2001, in particolare p. 10 sgg.; A. Giddens, Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Bologna, il Mulino 1994, p. 71.
30 Questo passaggio è esemplificato da un confronto tra il mappamondo di Fra Mauro del 1459 – ancora occupato essenzialmente dalla rappresentazione delle terre – e il globo terrestre di Bressanone del 1523-24 – occupato in larga parte dall’acqua.
31 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 77: «L’experimentum maris forniva il nuovo concetto dell’esperienza del mondo».
32 Su questo punto è certamente emblematico il trattato di Tordesillas tra Spagnoli e Portoghesi che, operando un taglio netto semplicemente su una carta geografica, ha sancito l’influenza della Spagna sulla gran parte del continente sudamericano e assegnato al Portogallo il controllo del Brasile.
33 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 92.
34 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 94: «Il soggetto è un complesso non banale di ambizioni e riflessione, ovvero di energia e perfidia».
35 Ibidem, p. 100.
36 «Insomma, io dimostro che tutti gli uomini, non dico già grandi, ma che appena escono dalla carreggiata comune, cioè che siano appena capaci di dire qualcosa di nuovo, devono immancabilmente, per la natura loro, essere delinquenti – Altrimenti sarebbe loro difficile uscire dalla carreggiata, e a rimanervi, naturalmente, essi non possono acconsentire, sempre per la natura loro», Delitto e Castigo, Torino, Einuadi 1947, p. 274.
37 Un argomento simile si trova anche in H. Mann, Geist und Tat, Berlin, Aufbau Verlag 1986, p. 576: «L’uomo dello spirito, una volta giunto alla convinzione che deve agire, si trova subito faccia a faccia con l’assassinio politico; o, se non è proprio così, la moralità delle sue azioni fa comunque pensare all’assassinio politico come conseguenza del suo agire».
38 Melville, Moby Dick, Milano, Adelphi 2001, p. 37: «Ogni volta che mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e pioviggionoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi innanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un forte principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente il cappello per terra alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare».
39 Secondo l’autore vi è un eco di questa liason tipicamente moderna tra innovazione e criminalità sia in Himmler che in Lukács, a loro volta ritenuti gli ultimi rappresentanti di questa psicologia del progresso. Il riferimento è agli appunti del giovane Lukacs sull’opera di Dostoevskij e al discorso tenuta da Himmler a Posen nell’ottobre del 1943. v. N. Bolz, Auszug aus der entzauberten Welt. Philosophischer Extremismus zwischen den Weltkriegen, München, Fink 1989, in particolare pp. 13-20.
40 E’ nella prospettiva del paragone tra la fissità del cielo della metafisica, al riparo del quale vivevano gli antichi, che l’autore definisce questi dispositivi dei «baldacchini», dei ripari viaggianti e flessibili destinati alla copertura psicologica del disagio causato dall’ignoto, v. P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., cap. 22, I cinque baldacchini della globalizzazione. Aspetti dell’esportazione europea dello spazio, p. 164 sgg.
41 A testimonianza della natura terrestre della filosofia di Kant l’autore si riferisce ad un passo della Critica della ragion pura (Milano, Bompiani 2004, p. 264), nel quale si dice che il «territorio della verità» si contrappone a quell’oceano «in cui ha la sua sede più propria la parvenza», «dove innumerevoli banchi di nebbia […] creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre».
42 P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni, cit.
43 Non è possibile in questo contesto ricostruire la storia della filosofia in questa chiave, tra gli autori cui Sloterdijk si riferisce vale la pena di citare l’onnipresente Nietzsche e sporadici riferimenti a Giordano Bruno, Schopenhauer e Ralph Waldo Emerson, v. P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., pp. 126-134.
44 Ibidem, p. 133.
45 E’ un altro personaggio letterario a costituire l’emblema dell’avvenuta omogeneizzazione dello spazio, cioè il Phileas Fogg de Il giro del mondo in ottanta giorni, che di contro a quanto l’arte nautica imponeva fino alle soglie dell’800, decide del tutto per caso di compiere il giro del mondo andando verso ovest, anziché verso est, v. P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., pp. 67-71.
46 In questa direzione vanno molte ricerche sull’emergere dell’estetica del brutto in età moderna, si veda a titolo di esempio il legame tra storia e estetica descritto da P. Szondi in Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, Milano, Guerini 1995.
47 A titolo di esempio si pensi ai testi del dibattito tra Bartolomè de las Casas e Ferdinand de Oviedo sulla natura degli «schiavi» suscitato in Europa dalla presenza nel nuovo continente di popolazioni non cristiane (o solo recentemente convertite), delle quali gli intellettuali europei si sentivano chiamati a dire se fossero o meno compiutamente umani, v. A. Pagden, La caduta dell’uomo naturale. L’indiano d’America e le origini dell’etologia comparata, Torino, Einaudi 1989.
48 Nello specifico secondo Sloterdijk l’epoca della globalizzazione terreste può venire considerata conclusa nel 1944 con gli accordi di Bretton-Woods, v. M. Albrow, The Global Age: State and Society Beyond Modernity, Stanford (Ca.), Stanford University Press 1996.
49 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 230: «La telecomunicazione rappresenta un concetto di spessore ontologico perché indica il compimento pratico dell’addensamento».
50 Tra gli elementi in grado di compiere quest’operazione vi sono stati, secondo Sloterdijk, anche i testi che ciascuna tradizione culturale nazionale ha teso a indicare come «classici» e che, come altri media, tendono ha perdere la loro funzione con l’avvento di nuovi strumenti comunicativi, v. P. Sloterdijk, Regole per il parco umano, cit., p. 241.
51 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 229
52 Per le critiche esplicite alla possibilità di conoscere o normare le società a partire dalla morale v. P. Sloterdijk, Sphären III, cit., in particolare Übergang. Nicht Vertrag, nicht Gewächs. Annährung an die Raum-Vielheiten, die bedauerlicherweise Gesellschaft genannt werden.
53 In questa direzione sembrano andare anche alcuni elementi nuovi del sistema giuridico globale, tr i quali certamente la creazione della International Criminal Court. Sulle nuove prospettive della giustizia penale internazionale v. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, Laterza, Roma-Bari 1998; sulla capacità della giustizia penale internazionale di colpire responsabili individuali di certe tipologie di crimine v. A. Cassese, Diritto internazionale. I lineamenti, il Mulino, Bologna 2003. Dubbi consistenti sul fatto che questa procedura di attribuzione di responsabilità si concili con la nozione di umanità sono espressi da D.Zolo in Chi dice umanità, Torino, Einaudi 2000.
54 K. Beyertz, Eine kurze Geschichte der Herkunft der Veranwortung, in Veranwortung. Prinzip oder Problem?, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1995.
55 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 230: «Grazie ad un cronico soggiorno in ambienti densi, l’inibizione diventa la nostra seconda natura. Se ci si esercita sufficientemente all’inibizione, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista fisico, l’intervento unilaterale sembrerà semplicemente un’utopia, che non corrisponde allo stato presente delle cose».
56 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 245
57 Per farsi un’idea dei complessi modelli decisionali che stanno oggi alla base delle politiche pubbliche v. Il futuro delle politiche pubbliche, a cura di C. Donolo, Milano, Mondatori 2006.
58 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 243: «[T]ra le Eumenidi della città […] ora è all’ordine del giorno una nuova denominazione basata sullo spirito del sistema mondo. Si chiameranno in futuro retroazione, multilateralità e responsabilità. Sono queste le Erinni discrete della densità post-storica che sempre tenderanno i fili da un punto vicino A al più lontano B, ricondurranno tirandoli per i capelli gli effetti alle loro cause: immerse nei calcoli, pallide di fronte all’analisi dei costi, sperdute in prospetti multifunzionali, sprofondate negli abissi contrari di karma e statica, impegnate a bilanciare i danni provocati e a pronosticare ulteriori perdite nel caso che le cose continuino ad andare come sono cominciate».
59 Ibidem, p. 247.
60 Ibidem, p. 262.
61 Su questo punto v. Der starke Grund zusammenzusein. Erinnerung an die Erfindung des Volkes, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1998 p. 46 e sgg.
62 v. Regole per il parco umano, cit. Sull’idea che il processo di circolazione delle informazioni prodotto dai nuovi media generi una forma di sapere radicalmente diversa da ciò che in Occidente si designa tradizionalmente con cultura v. Cultura globale: nazionalismo, globalizzazione e modernità, a cura di M. Featherstone, Roma, SEAM 1996; R. Robertson, Globalizzazione: teoria sociale e cultura globale, Trieste, Asterios 1996.
63 Secondo l’autore la retorica antiborghese che ha caratterizzato il fascismo italiano non si sarebbe espressa a caso sotto forma di messa al bando della «mollezza e della vita comoda». Essa costituirebbe al contrario una sorta di tentativo, condotto fuori tempo massimo, di opporsi al capitalismo colpendone con ironia una delle figure più tipiche: quella di colui che rifugge ogni fatica e si dedica ai piaceri del consumo. Su fascismo e disinibizione v. anche P. Sloterdijk, Regole per il parco umano, cit., p. 252.
64 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 248: «Si può sostenere a buon diritto che il concetto di Aparheid, dopo il suo superamento in Sudafrica, sia stato generalizzato a tutto il capitalismo, svincolandosi dalla sua versione razzista e passando a uno stato economico-culurale di difficile definizione».
65 Su questo, come su altre questioni rilevanti Sloterdijk certamente attinge da un autore che di rado cita, ovvero l’ideatore della formula sistema-mondo, su questo punto specifico v. I. Wallerstein, E. Balibar, Razza, nazione, classe le identità ambigue, Roma, Edizioni Associate 1991.
66 Ibidem, p. 218: «Le grandi narrazioni delle nazioni moderne e del loro ruolo nel mondo non sono state esposte semplicemente come storie di libertà e formazione di soggetti collettivi; esse supportano spesso direttamente le pretese imperiali della nazione narrante». Sul tema dell’invenzione del passato come dispositivo i giustificazione delle pretese nel presente la letteratura è ormai sterminata, si vedano a titolo di esempio le ricerche sul moderno concetto di nazione: E. J. Hobsbawm, Terence Ranger, L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi 1987; E. Gellner, Thought and Change, London, Weidenfeld and Nicholson 1964; I. Wallerstein, La costruzione del popolo: razzismo, nazionalismo, etnicità, in Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, cit., pp. 97-141; W. J. Mommsen, Le trasformazioni dell’idea di nazione nella scienza storica tedesca del XIX e XX secolo, in Problemi e metodi della storiografia tedesca contemporanea, a cura di B. Gerloni, Torino, Einaudi 1996, pp. 5-28; B. Anderson, Imagined Communities, London New-York, Verso 1991.
67 In particolare sulla natura postistorica del terrorismo contemporaneo v. Ira e Tempo, cit., pp. 260-270; Terrore nell’aria, cit.
68 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 216: «[N]ella lunga notte della storia tutte le mucche sono grigie e non contano nulla». L’idea che esistesse un legame tra la sopravvivenza della coscienza storica e la capacità di azione delle formazioni sociali si trova anche in Guy Debord che Società dello spettacolo scrive: «Uno Stato nella cui gestione si insedia in modo duraturo un grande deficit di conoscenze storiche non può più essere guidato strategicamente».
69 Ivi.
70 Ibidem, p. 198: «Come si comprende in modo chiaro se si guarda indietro, la straordinaria impresa dello stato nazionale è stata quella di fornire alla maggioranza dei suoi abitanti una sorta di domesticità: questa tanto immaginaria quanto reale struttura immunologia che poteva essere percepita come convergenza del luogo e del sé o come identità regionale, nel senso positivo del termine». Sulle tendenze misantropiche che accompagnano il processo di globalizzazione nel XX secolo v. I. Clark, Globalizzazione e frammentazione, cit; sulla riduzione della solidarietà sociale con il crescere dell’integrazione in network comunicativi v. R. Fortner, International Communication. History, Conflict and Control of the Global Metropolis, Belmont, Wadsworth 1993.
71 Sulla funzione dell’individualizzazione in rapporto alla sociazione, in una direzione non dissimile va Biographie und soziale Wirklichkeit, a cura di M. Kohli e G. Robert, Stuttgart, Metzler 1984. Un’idea simile ma in una prospettiva molto diversa si trova nell’ormai classico U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci 2000, in particolare il cap. 5 Individualizzazione, istituzionalizzazione e standardizzazione: situazioni di vita e modelli biografici.
72 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 203.

martedì 21 settembre 2010

La persuasione e la rettorica

Michelstaedter Carlo

La persuasione e la rettorica


Alessio Bernocchi

Autore:
Michelstaedter Carlo

“Io lo so che parlo perché parlo, ma non persuaderò nessuno…”

È l’incipit di quest’ opera poco conosciuta, il cui autore è Carlo Michelstaedter, filosofo poeta e scrittore goriziano noto più per la sua triste vicenda biografica che per le sue opere: infatti la sua giovane vita s’interruppe, volontariamente, a soli 23 anni, nello stesso giorno in cui consegnò la sua tesi di laurea (l’opera in questione appunto) all’istituto di studi superiore di Firenze. L’opera è di difficile fruizione, un po’ per i temi trattati, un po’ per lo stile non comune di scrittura, ma per l’originalità e la premonizione di certi passi meriterebbe di essere conosciuta più profondamente, e di entrare a far parte dell’èlite delle opere filosofiche italiane del secolo scorso.

Finito di scrivere nel 1910, questo testo, che inizialmente doveva essere uno studio sui concetti di Persuasione e Retorica in Platone e Aristotele, assume una connotazione del tutto personale, in cui si possono ritrovare fondamentali temi dibattuti negli anni seguenti, dall’esistenzialismo al nichilismo a certe concezioni del linguaggio e della scienza, che avvicinano addirittura Michelstaedter a Martin Heidegger.

Filosofo di riferimento di questo giovane Goriziano è certamente Arthur Schopenhauer, ma non sono irrilevanti le influenze di scrittori quali Ibsen e Tolstoj, e soprattutto è forte la presenza del pessimismo Leopardiano del quale si sentono eco in particolare del “Dialogo di Tristano e un amico”. Inoltre sono evidenti i collegamenti col pensiero buddista, soprattutto laddove il motivo cardine da cui conseguono il dolore e l’angoscia umana è quell’eterno volere, bramare l’ulteriore, la costitutiva incapacità di accontentarsi di sé, che Budda nelle prediche di Benares riassume con il concetto di “SETE”.

Passando poi ad analizzare il libro, va notato che si struttura in 2 parti, rispettivamente concernenti la “persuasione” e la “rettorica”, concetti che nel pensiero e nella interpretazione michelstaedteriana rappresentano l’una la modalità di vita “vera”, pregna di significato e di valore, autentica, l’altra la falsità, la massificazione, il vivere moderno basato su un sapere inautentico (perché impersonale e non creativo) come quello della tecnica. Opera allo stesso tempo densamente mistica e fortemente critica verso la società, questa tesi, poi ristampata a cura degli amici più stretti di Carlo, è stata considerata da un grande maestro di critica come Asor Rosa “la più anomala ovvero la più eccezionale” della letteratura italiana, e sicuramente non a torto. La consiglio a tutti coloro che siano interessati all’approfondimento dei temi della crisi del primo Novecento, del post-niccianesimo, dello sviluppo del nichilismo in Italia.

Esistono 2 edizioni dell’opera, sempre pubblicate da Adelphi e curate da Sergio Campailla: una edizione completa comprendente anche le poesie e alcuni dialoghi, e una, che consiglio, uscita nella collana “piccola biblioteca” molto ben curata e con un’ottima introduzione dello stesso Campailla.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910), filosofo, poeta e scrittore italiano.

Carlo Michelstaedter, “La persuasione e la Rettorica”, Adelphi, Milano 1982. A cura di Sergio Campailla.

Approfondimenti in rete: http://www.michelstaedter.it/ Filosofico. net / Ilmondodisofia. it / Lyber-eclat / Evola su Michelstaedter.


martedì 3 agosto 2010

La scienza della persuasione

Immagine by Shephard Fairey

traterraecielo.net

Il condizionamento nel Mondo Nuovo e l’esperimento di Pavlov.


Nel romanzo Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, ambientato in un ipotetico futuro, viene descritta una società distopica perfettamente pianificata, una società in cui la stabilità è raggiunta per mezzo dell’ingegneria genetica, del precoce condizionamento attuato sugli individui sin dalla più tenera età e mediante l’annullamento delle libertà personali.
In tale società, rigidamente divisa in caste, vi è quindi necessità di una forza lavoro che svolga mansioni con differenti gradi di specializzazione; di conseguenza, per fare in modo che nessuno sia scontento della propria posizione, ad ogni individuo viene riservata sin dalla più tenera età una diversa formazione.
Nei casi delle caste inferiori, i gamma e i delta, questa formazione sarà anche finalizzata nel mantenere basso il quoziente intellettivo dei soggetti, dal momento che coloro che sono preposti allo svolgimento dei lavori più umili è bene che non si rendano conto della loro situazione, e non sviluppino alcun sentimento di invidia nei confronti delle classi privilegiate.

Nel romanzo, tra le altre cose, vengono descritti alcuni dei metodi con cui i bambini delta vengono condizionati affinché sviluppino determinate inclinazioni e delle particolari predilezioni.
Ad esempio, nei primi mesi di età, vengono posti di fronte a dei libri e a dei fiori, ed ogni volta che li toccano vengono investi da una scossa elettrica.
Il regime infatti ritiene sconveniente che i bambini sviluppino interesse per la lettura, dal momento che l’ignoranza è essenziale per mantenere la popolazione sotto controllo; allo stesso modo viene osteggiato un eccessivo amore verso la natura, poiché i cittadini che amano trascorrere il loro tempo all’aria aperta non spendono e non stimolano l’economia.
Huxley, nell’immaginare il condizionamento violento per mezzo delle scosse elettriche, si rifà evidentemente ai celebri studi del dottor Ivan Pavlov.

Ivan Pavlov, come è noto, mentre svolgeva degli esperimenti con l’aiuto di un cane aveva osservato come la salivazione dell’animale aumentasse alla vista del cibo, come normalmente ci si poteva aspettare.
Il cibo in questo caso venne chiamato stimolo incondizionato, e la salivazione del cane riflesso incondizionato.
Nel proseguire con l’esperimento, Pavlov iniziò a suonare un campanellino ogni volta che portava del cibo al suo cane, finché l’animale associò la presenza del cibo con il suono.
In seguito, Pavlov scoprì che il suono del campanellino, da solo, era sufficiente per innestare la salivazione del cane, anche senza la presenza del cibo.
Il suono del campanello divenne lo stimolo condizionato, mentre la salivazione indotta da questo suono, e non dal cibo, venne detta riflesso condizionato.

E’ utile qui notare che la salivazione non è una operazione controllata dalla parte razionale della mente, ma si tratta invece di un processo inconscio che si verifica a prescindere dalla volontà dell’individuo, negli animali così come nell’uomo.
L’esperimento di Pavlov, di conseguenza, registrò in maniera “scientifica” una delle caratteristiche principali del mondo animale, uomo incluso, ovvero la capacità della componente inconscia di elaborare i dati del mondo esterno per “associazione”.

Il meccanismo dell’associazione

Tutti gli esseri umani sperimentano inconsciamente il meccanismo dell’associazione nella loro vita quotidiana.
Quando ad esempio associamo un profumo particolare ad una persona a noi cara, ed in seguito il solo odorare quel profumo ci provoca sentimenti positivi.
Oppure nell’istintiva repulsione che proviamo nei confronti della sveglia che interrompe il nostro sonno ogni mattino, anche quando è silenziosa, così come nella gioia provata nell’osservare un particolare oggetto, insignificante per gli altri, che abbiamo associato con un momento carico di sensazioni.
E’ importante sottolineare che il processo dell’associazione avviene in maniera del tutto inconscia, ed agisce ad un livello molto più profondo dell’attenzione razionale.

Occorre ricordare anche che l’apparenza, ovvero il modo in cui la realtà si mostra, gioca un ruolo molto più importante di quanto siamo portati a credere
per quanto riguarda la nostra capacità di analizzare il mondo circostante,
Quando ad esempio incontriamo una persona, prima di parlarle e conoscerla la nostra parte inconscia ha già elaborato una sua precisa opinione, sempre attraverso il meccanismo della associazione, e la nostra parte razionale ed analitica interviene solamente in un secondo momento; se la prima impressione è negativa, dovrà passare molto tempo prima che il “parere” espresso dalla parte razionale possa mutarla, mentre se il primo giudizio è positivo, per lungo tempo i segnali negativi verranno accantonati e sminuiti dalla parte razionale.
Questa sorte di giudizio non ha nulla a che fare con l’intelligenza di una persona o la sua “apertura mentale”, tipica di chi è convinto di non giudicare mai dall’apparenza, proprio perché riguarda la nostra parte inconscia ed istintiva.
Un esempio aiuterà a comprendere meglio questi meccanismi: una conoscente, persona istruita ed amabile, trovava insopportabile la vista di un certo telecronista sportivo, giudicandolo persona estremamente antipatica ed irritante, senza che il comportamento del giornalista avesse mai dato adito a questo giudizio.
Un giorno, rivedendo le immagini di una tragedia successa molti anni addietro in una partita di calcio, la conoscente riconobbe la voce del telecronista, e si rese conto che la sua avversione nei suoi confronti era provocata dal fatto che aveva associato la sua voce alle tragiche immagini che da bambina aveva osservato alla televisione.

Rifacendoci alla terminologia utilizzata da Ivan Pavlov, possiamo affermare che in questo caso la tragedia è lo stimolo incondizionato (quello che per il cane era la visione del cibo), la voce del telecronista è lo stimolo condizionato (il suono del campanellino), e il sentimento di repulsione all’udire il giornalista è il riflesso condizionato.
Ovviamente, questo processo psicologico non rappresenta una scoperta di Pavlov, ma a lui va il merito di averlo dimostrato “scientificamente”, ovvero secondo i parametri della ricerca moderna.

L’apporto della psicanalisi, da Freud a Le Bon

Pochi anni prima di Pavlov, un’altra disciplina propriamente moderna, ovvero la psicanalisi, sulla cui qualità scientifica è lecito dubitare, tentò di studiare le modalità attraverso le quali funzionava la psiche degli esseri umani, ponendo l’attenzione su quella sua componente che da allora venne chiamata “inconscio”.
L’idea di fondo di tale disciplina sosteneva che la maggior parte dei problemi psicologici delle persone era originata da traumi irrisolti, vissuti dall’individuo e rimossi dalla componente cosciente della psiche, ma ancora presenti a livello inconscio.
Si pensava che aiutando il paziente nel ricordare e “far riemergere” il trauma si potesse dargli la possibilità di affrontarlo e risolverlo definitivamente.
L’opera di Sigmund Freud e del suo allievo dissidente Jung ebbe un enorme diffusione nel XX secolo, ed influenzò in maniera decisiva il pensiero e l’immaginario collettivo.

La psicanalisi gode tuttora di enorme popolarità, e gode anche dello status di “disciplina scientifica”, nonostante molti si dichiarino scettici riguardo la sua reale efficacia.
Ma se l’aspetto curativo di questa scienza suscitò sin dalla sua nascita enormi perplessità, ad una parte dell’apparato teorico della psicanalisi venne invece riservata una grande attenzione da persone che occupavano posizioni di grandi responsabilità, persone che avevano interesse nel comprendere come effettivamente la psiche e la mente umana funzionano.
Fu questo il caso di Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, uno dei pensatori che maggiormente contribuì a plasmare la mentalità dell’uomo contemporaneo.

Bernays, rifacendosi all’opera di Freud e di Gustave Le Bon, un altro studioso che diede un enorme apporto alla comprensione di questi meccanismi, operò affinché tali studi potessero trovare una applicazione pratica su vasta scala.
Occorre quindi, prima di procedere con l’analisi dell’opera di Bernays, ricordare la grande importanza, ancora troppo poco nota, che ebbero le ricerche dello psicologo Gustave le Bon, che nel 1895 diede alle stampe il fondamentale Psicologia delle folle.
In tale scritto, Le Bon analizzava il comportamento sviluppato dalle persone nel momento in cui formano dei gruppi più o meno numerosi, arrivando a sostenere che all’interno di una folla emerge e prende il soppravvento una sorta di “coscienza collettiva” indipendente da quella dei singoli che la compongono, una coscienza che risponde a dettami “inconsci”, sentimenti che possono essere abilmente guidati da personalità carismatiche che sono in grado di comunicare direttamente con questa enorme “coscienza”.
L’opera di Le Bon venne attentamente studiata dai maggiori dittatori del XX secolo: Mussolini riteneva “psicologia delle folle” un testo imprescindibile per un leader di governo, così come Hitler e Stalin.

Edward Bernays, quindi, dopo aver a studiato i testi di Freud e di Le Bon, sul finire dell’ottocento si trasferì in America e si dedicò al perfezionamento della scienza della persuasione nota come propaganda.

Edward Bernays, dal razionale all’inconscio

Quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla. Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare. Questo è il logico risultato del modo in cui la nostra società democratica è organizzata. Un vasto numero di esseri umani deve cooperare in questa maniera se si vuole vivere insieme come società che funziona in modo tranquillo. In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale, siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone ...Coloro che hanno in mano questo meccanismo, costituiscono il vero potere esecutivo del paese.”
Edward Bernays, Propaganda, 1929

Bernays lavorò per il governo americano e per l’apparato industriale, e nel campo della propaganda e della pubblicità ottenne i suoi più grandi successi, perfezionando quel particolare meccanismo tuttora usato dai creatori d’opinione.
Prima di Bernays, la pubblicità si concentrava nell’elencare le qualità e i benefici dei prodotti reclamizzati: di una bibita si diceva che fosse dissetante, di un abito che era resistente, di un particolare attrezzo si elencavano i modi d’uso, e così via.
Ci si rivolgeva, in altre parole, alla parte razionale, cosciente, della mente del consumatore.
Edward Bernays rivoluzionò questo meccanismo, e comprese che un prodotto avrebbe potuto essere maggiormente venduto se si rendeva appetibile al consumatore rivolgendosi alla sua parte “inconscia”.

Il prodotto quindi non doveva essere presentato per le sue intrinseche qualità, ma doveva essere proposto in associazione con un sentimento positivo, con una promessa di felicità, con uno stile di vita agognato.
Nel pubblicizzare un biscotto non bisognava soffermarsi sulla sua bontà o sulle sue qualità nutritive, ma occorreva mostrare una famiglia felice in una bella casa che con quel biscotto prendeva la sua prima colazione.
Di una automobile non si doveva fare una lista delle sue prestazioni, ma ritrarla in un paesaggio aperto e solare che suggerisse un senso di libertà.
Bernays, in altre parole, non fece altro che unire gli studi di Freud e di Le Bon con le scoperte del professor Ivan Pavlov a proposito dei riflessi condizionati.

Così come il cane del professore sbavava all’udire il suono del campanellino, associato inconsciamente al cibo, il nuovo consumatore venne abituato ad associare ai prodotti reclamizzati un determinato sentimento.
Nella pubblicità del biscotto, ad esempio, viene mostrata una famiglia felice, in una bella casa.
Per il consumatore tale condizione, la felicità, è l’equivalente di quello che per il cane di Pavlov era il cibo, lo stimolo incondizionato, ovvero il suo bisogno primario.
Il biscotto, associato all’immagine della felicità, è lo stimolo condizionato, quello che per il cane era il suono del campanellino.

Quando poi il consumatore al momento di fare la spesa si troverà di fronte a quel particolare biscotto, entrerà in funzione il meccanismo di associazione, inconsciamente, e sarà portato a scegliere quel prodotto - riflesso condizionato - nello stesso modo in cui la salivazione del cane aumentava al suono del campanellino.

E’ essenziale notare ancora una volta come su tale processo non influiscono le qualità intellettive del consumatore, dal momento che il tutto avviene a livello inconscio.
L’associazione biscotto-felicità è ormai acquisita.

Associazione e ripetizione: la creazione del bisogno

Il successo, indiscutibile, di tale meccanismo, è testimoniato dal fatto che ancora oggi le strategie promozionali ricalcano esattamente le modalità teorizzate da Edward Bernays: le pubblicità attualmente puntano inevitabilmente su concetti semplici che richiamano i bisogni primari di ogni persona: il successo, il senso di libertà, il sesso.
Per reclamizzare una pasta sigillante si mostra una ragazza nuda, un assorbente è associato ad una giovane donna che si lancia col paracadute, le macchine percorrono paesaggi suggestivi oppure si muovono eteree in paesaggi urbani “addomesticati”, mentre gli spaghetti sono sempre accompagnati da famiglie impeccabili e sorridenti che si amano, famiglie perfette.

Quando poi il consumatore si reca nel supermercato e si trova davanti a quel sigillante, ecco che dentro di sé prova una strana sensazione piacevole, senza rendersi conto che la sua psiche nello stesso momento sta immaginando una bella donna nuda immersa in una vasca trasparente.

Tutto questo, però, non sarebbe possibile senza la presenza di un altro fattore, egualmente importante e necessario: la ripetizione.
Nella pubblicità, come nella propaganda, il messaggio va ripetuto più e più volte, perché, ed anche questo è ormai provato, la mente umana tende a considerare veritiere le informazioni ricevute più volte in diverse condizioni.
All’ennesima ripetizione di un concetto, quest’ultimo sarà considerato vero in maniera automatica, e ciò è valido sia sul piano cosciente che a livello inconscio.

Associazione, appello ai bisogni primari, ripetizione: questi, in sintesi, i fondamenti della manipolazione del pensiero.

martedì 25 maggio 2010

Presagio di grandi catastrofi

AUTORE: Míkis THEODORÁKIS Μίκης ΘΕΟΔΩΡΑΚΗΣ

Tradotto da Curzio Bettio


Con il buon senso di cui dispongo, non posso spiegarmi e ancor meno giustificare la rapidità con cui il nostro paese è precipitato rispetto ai livelli del 2009, al punto tale che noi stiamo perdendo una parte della nostra sovranità nazionale a vantaggio del Fondo Monetario Internazionale FMI e veniamo posti sotto tutela.

Ed è strano che nessuno, fino a questo momento, non abbia fatto la cosa più semplice, vale a dire, risalire il corso della nostra economia a partire da quel periodo ad oggi, con fatti e cifre, in modo che noi, i non iniziati, abbiamo la possibilità di comprendere le effettive ragioni di questa evoluzione vertiginosa e senza precedenti degli accadimenti che hanno determinato la perdita della nostra indipendenza nazionale, accompagnata dall’umiliazione internazionale che dobbiamo subire.

Ho sentito parlare di un debito di 360 miliardi, ma nello stesso tempo vedo che molti altri paesi hanno debiti simili a questo, se non ancora più grandi.

Dunque, non può essere questa la ragione principale delle nostre disgrazie. Quello che allo stesso modo mi disturba è l’elemento di esagerazione nei colpi assestati al nostro paese a livello internazionale; che una azione di tale misura sia stata concertata in modo così palese contro un paese finanziariamente insignificante, questo desta sospetti.

Per questo, sono pervenuto alla conclusione che certi personaggi ci riversano addosso vergogna e paura, in modo da gettarci nelle spire del FMI, che costituisce un fattore fondamentale della politica espansionistica degli Stati Uniti.

Tutti i discorsi sulla solidarietà europea non sono stati che polvere negli occhi, in modo da dissimulare il fatto che si tratta chiaramente di una iniziativa usamericana, che mira a farci piombare in una crisi finanziaria largamente artificiosa, con lo scopo di far vivere il nostro popolo nella paura, di renderlo ancora più povero, di sottrargli realizzazioni e conquiste preziose e alla fine di metterlo in ginocchio, consenziente perché costretto ad essere dominato dagli stranieri.

Ma a chi serve tutto questo? Quali sono i progetti da realizzare, quali sono gli obiettivi da conseguire?

Benché sia sempre stato, e che lo sia ancora, partigiano dell’amicizia greco-turca, devo dire nondimeno di essere preoccupato per il rafforzamento improvviso delle relazioni fra i nostri due governi, per le riunioni dei ministri e di altri funzionari, per i movimenti a Cipro e la visita di M. Erdogan. Io sospetto che dietro a tutto questo si celino la politica degli Stati Uniti e i loro progetti, che destano sospetti, relativi alla nostra posizione geografica, all’esistenza di giacimenti sottomarini, al regime di Cipro e al mare Egeo, ai nostri confinanti del Nord e al comportamento arrogante della Turchia; piani che fino a questo momento sono andati a vuoto solamente per la diffidenza e l’opposizione del popolo greco.

Attorno a noi, tutti, chi più chi meno, sono saliti sul carro in movimento degli Stati Uniti. Noi soli abbiamo rappresentato l’unica nota stonata, noi che, dall’insediamento della giunta militare e dalla perdita del 40% di Cipro fino all’abbraccio con Skopje (ARYM – ex Repubblica jugoslava di Macedonia) e con gli ultranazionalisti albanesi, abbiamo ricevuto bastonate di continuo, ma non siamo ancora divenuti “ragionevoli”.

Di conseguenza, come popolo, dobbiamo essere sottomessi, e questo è esattamente quello che sta arrivando oggi. Io sfido gli economisti, i politici e gli analisti a provarmi il contrario. Io credo che non ci sia spiegazione plausibile, altro che quella di un complotto internazionale, con la partecipazione degli Europei filo-statunitensi, come la signora Merkel, la Banca Centrale europea e la stampa reazionaria internazionale, che hanno progettato il loro “gran colpo”, in modo da ridurre una nazione libera in schiavitù. Quanto meno, personalmente, non posso trovare proprio un’altra spiegazione. Comunque, io riconosco che non sono in possesso di conoscenze specifiche e che le mie parole poggiano solo sul buon senso. Ma potrebbe darsi che ci siano tante altre persone che sono pervenute alla medesima conclusione – e questo lo vedremo nei giorni a venire.

In ogni caso, resto fermo nel preparare l’opinione pubblica e a sottolineare che, se la mia analisi è giusta, allora la crisi finanziaria (la quale, come ho già affermato, ci è stata imposta) non è altro che la prima bibita amara nella festa sontuosa che si sta preparando e che questa volta riguarderà questioni nazionali tanto vitali che non desidero proprio immaginare dove questo ci condurrà.

http://resaltomag.blogspot.com/2010/04/blog-post_27.html


domenica 28 febbraio 2010

Grecia: prove generali dell'Europa

Valerio Lo Monaco
ilribelle.com

Quanto accaduto alcuni giorni addietro in Grecia, ovvero lo sciopero generale per protestare contro le misure eccezionali prese dal governo Papandreou per ridurre le spese, che ha visto in piazza centinaia di migliaia di persone, con diversi e accesi scontri con le forze dell'ordine, merita una attenzione particolare. Certamente più profonda di quella riservata all'evento dai media nostrani e internazionali che, nella migliore delle ipotesi, si sono accontentati di raccontare brevi cenni di cronaca. Quanto avvenuto è infatti paradigmatico di una situazione generale, oltre alla evidente contingenza locale della Grecia. Di più: i fatti di Atene rappresentano le prove generali di quanto, con molta probabilità, sta per accadere a larga parte d'Europa - Italia inclusa - e in modo più esteso è la diretta conseguenza di quanto, da decenni, sta covando di fatto in tutto il mondo.

La riflessione "bucata" dalla quasi totalità di stampa e televisioni - nonché da larga parte dei sedicenti intellettuali da salotto - riguarda infatti l'aspetto generale, e dunque esistenziale, comune alla società nel suo complesso.

La cronaca e le motivazioni della protesta sono note e semplici da rammentare: larghissima parte della popolazione greca protesta contro il governo locale per i fortissimi tagli imposti dallo stesso alle finanze dello Stato e dunque a tutti i cittadini. Tra le altre cose, si tratta di congelamento dei salari e soprattutto di inevitabili e drastiche riduzioni dei servizi.

Solo di passaggio, vale bene rammentare che l'attuale governo greco è considerato "socialista", e per chi abbia memoria storica di tale termine - al di là del fatto che oggi si dichiarano socialiste, nel mondo, anche tante forze che di interessi sociali hanno poco o nulla - rimane comunque, se non altro dal punto di vista terminologico, l'evidenza della contraddizione.

Il punto è che i tagli operati in Grecia provengono da ferree direttive europee: in ordine agli aiuti che l'Europa darà alla Grecia per superare (almeno così si spera...) l'attuale momento di grave crisi, si chiede, cioè, si impone, al governo greco di operare dei tagli a colpi di mannaia sulle spese pubbliche. Non fosse che, queste spese pubbliche tagliate, sono esattamente quelle di stampo sociale che vanno a colpire, pertanto, proprio la popolazione.

Gli striscioni in testa ai vari cortei sono a senso unico e fanno capire immediatamente la natura della protesta: "noi (cittadini) non vogliamo pagare per una crisi che non abbiamo causato".

Inutile insistere sul messaggio: è chiaro. E sacrosanto. In Grecia sta avvenendo né più né meno che quanto è nell'ordine delle cose (e su queste pagine lo abbiamo anticipato in tempi non sospetti): la crisi economica globale, generata in primis dal fallimentare stesso sistema economico alla base delle nostre società, e portato alle estreme conseguenze dalla ingordigia della finanza, sarà pagata direttamente da chi non ha colpa alcuna. Fatta eccezione, naturalmente - e se di colpa possiamo parlare - il fatto che oggi, in vasta parte del mondo, c'è ancora chi non riesce a mettere a fuoco il punto principale del nostro sistema di sviluppo, pende dalla labbra di chi perdura a sostenerlo (di una parte o dell'altra) e non riesce a fare il passo successivo che vuole in una critica radicale del modello stesso (e dei suoi rappresentanti politici, di una parte o dell'altra) il punto principale di protesta.

Per essere chiari e rimanendo nell'ambito greco: se anche cadesse Papandreou, e arrivasse a governare una forza politica opposta - ma interna alla stessa logica sistemica - i tagli che la Grecia dovrebbe operare sarebbero i medesimi. La politica interna degli stati europei non è appannaggio locale, statale, ma centrale. Diretta conseguenza di decisioni prese altrove. E si tratta di decisioni prettamente economiche, non politiche. Attinenti dunque all'aspetto materiale, non relativo "al" politico. Diretta espressione, pertanto, di volontà meramente economiche, come Banche & Co., che nella loro logica non hanno il buon governo e la buona politica - dunque il benessere dei cittadini in senso lato - ma il profitto. Privato, of course, a spese di stati e cittadini.

Perché se è vero - ed è vero - che l'ingresso della Grecia in area Euro è avvenuto grazie a brogli finanziari (per truccare i conti) operati mediante l'intervento - interessato - di grandi banche come la Goldman Sachs (nessun media ne parla, avete visto?), e se è vero - ed è vero - che le stesse grandi banche stanno oggi speculando sulla crisi greca scommettendo sul suo default grazie al mercato dei Credit Default Swap che ha ripreso a galoppare alla grande malgrado la bolla del 2007 e del 2008, è evidente che il governo del singolo Stato (in questo caso quello greco) conti poco o nulla in merito a quanto sta accadendo. Non può che fare ciò che gli chiede l'Europa (espressione prettamente economica e affaristica) e non può che sottomettersi agli attacchi finanziari delle grandi banche.

Dal punto di vista esistenziale - e chiudiamo la breve riflessione lasciando al mensile lo spazio per una analisi dettagliata - cosa sta avvenendo in Grecia è la prova generale di quanto accadrà fatalmente a diversi altri stati europei e, più in generale, di quanto accadrà tra il piccolo e ricco Nord del mondo, opulento, economicamente straricco e in grado di indirizzare la società, e il Sud diffuso, composto da chi al gioco della competizione ha perso inesorabilmente, è sfruttato da decenni se non centinaia di anni, e chi fino a poco tempo fa poteva avere il miraggio di rappresentare la fascia media, ma ora sta scivolando rapidamente nel Sud stesso.

Brutalmente: dividendi privati e socializzazione della crisi. A vincere sono sempre le Banche e a perdere sono i cittadini. Le proteste non sono solo giustificate, ma aumenteranno.


domenica 20 settembre 2009

PERCHÉ ATLANTIDE È REALTÀ, NON FANTASIA

Un'analisi testuale classicistica della descrizione platonica.
il parere di Enrico Turolla
Nell’immediato dopoguerra (1947) la Casa Editrice Garzanti di Milano, nella sua serie "Classici Greci", propose ai lettori italiani il volume "L’ATLANTIDE di Platone: letture scelte dal Timeo e dal Crizia" interpretate e commentate a cura dell’autorevole classicista italiano Enrico Turolla. In tal modo, dopo gli sconvolgimenti della Seconda Guerra Mondiale, la questione del continente sommerso veniva autorevolmente rilanciata in Italia in libreria riproponendo le sue fonti tradizionali. Di tale testo antologico ragionato dei testi platonici relativi al mitico continente-isola primevo sottoponiamo qui ai lettori la prefazione firmata dal suddetto curatore del volume, specchio di una convinzione, quella di non pochi autori italiani dell’epoca, che non ha perso minimamente la propria validità.

La serie dei dialoghi platonici si svolge dagli anni primi della vita del Maestro ininterrotta sino agli anni postremi della gloriosa esistenza. "Scribens", si potrebbe ripetere anche pel Maestro ateniese, "Plato mortuus est". E la conclusione di questa sublime sequenza di opere è, ci si conceda il termine, "bicipite".
Spieghiamo.
Bicipite, con due capi cioè. E questi ; due capi sono rappresentati dal gruppo "Leggi Epinomis" da una parte; dal gruppo "Timeo", "Crizia", "Ermocrate", dall’altra. E intendiamo che a noi sarebbe lecito porre la parola fine sia dopo l’una che dopo l’altra serie di opere, mediate, l’una e l’altra, da un’unica istanza speculativa: la progressiva penetrazione del bene nel regno del divenire; penetrazione che avviene nel mondo istorico e di cui Platone attende l’attuazione e si fa di essa aiutatore e cooperatore. Ecco, lo sforzo eroico di dare una costituzione per la Città attesa. Tutto ciò perseguono i dodici libri del grande dialogo e la breve "Appendice alle Leggi o Deuteronomio", come si può interpretare la parola greca "Epinomis". Invece la penetrazione del bene nel mondo naturale è delineata nel Timeo e nel mondo della istoria pure (Crizia) ma non più in un’attesa futura, bensì nella istoria pristina dell’umanità, remota così, che ogni traccia di quell’organizzazione ora è cancellata.
I due gruppi inoltre presentano ancora caratteri comuni di non completa consumazione formale, ché nelle "Leggi", è notizia giuntaci dai tempi antichi, l’opera finale di revisione non è stata compiuta; nel "Timeo" e nel "Crizia", l’opera di revisione è perfetta indubbiamente ma il "Crizia" è interrotto e l’"Ermocrate", che doveva consumare la trilogia atlantica, non è mai stato scritto. Onde la trilogia si chiama anche opportunamente "trilogia incompiuta".
Lasciamo ora da parte il capo delle "Leggi" e della sua appendice, cronologicamente con piena probabilità posteriore all’altro. Nella "trilogia incompiuta", dunque, oltre a delineare il momento demiurgico della Creazione, Platone, quasi fin dalle prime parole del "Timeo", anteponendo insomma e anticipando, per evidenti ragioni costruttive, inserisce un accenno abbastanza diffuso a quello che sarà l’argomento del secondo dialogo, la descrizione cioè della Città giusta quale era stata all’origine dei tempi; inserisce, più esattamente, l’indicazione delle fonti che gli hanno concesso di figgere lo sguardo in un’antichità così remota. Indicate le fonti l’argomento devia e si rivolge a perseguire la Creazione, cioè l'episodio primo di questo sublime dramma. Il "Crizia" poi, episodio secondo, ci introduce definitivamente nel regno della istoria umana. E ciò che Platone ci narra, adoperando la sua terminologia, è mito, è racconto; non è dialettica, indagine, non esplorazione nel regno ulteriore dell’invisibile essere, come del resto nemmeno era dialettica l’indagine delle "Leggi" e della sua "Appendice". Platone interrompe insomma il suo parlare non in regno di dialettica, bensì in regno mitico. Tale è appunto nella sua totalità il "Crizia".
Terminare con un mito vuol dire, terminare nel mistero. E "mistero" pare a noi parola suscettiva d’interpretare e spiegare vera mente cosa sia il mito platonico. Racconto certamente; non tuttavia racconto di comuni eventi. Sono miti per esempio taluni racconti che perseguono eventi della storia ulteriore, la storia cioè dell’uomo dopo la morte; ci sono miti per la storia anteriore, la storia dell’uomo prima della nascita. Comune, negli uni e negli altri, l’accento di rinuncia ad un’affermazione di scienza e l’adozione d’una conclusione probabile. Scienza, sempre, non nel senso avvilito moderno (scienza naturale in tutte le sue sfumature: fisica, chimica, astronomia ecc.) ma nel senso eroico eleatico-platonico-aristotelico. Scienza dell’essere; scienza a priori, scienza del necessario; scienza metafisica. Non dunque conclusioni certe in questi miti, che rivolgendosi essi alla vita, sia pure in condizioni diverse dalla vita corporea, vengono pur sempre ad indagare le cause seconde delle quali esiste soltanto una scienza relativa; annubilata, probabile insomma. Tuttavia, mentre per l’indagine naturalistica del "Timeo" può soccorrere il metodo deduttivo, onde il "Timeo" è pur sempre un’indagine a carattere scientifico; più esattamente doxastico; questo aiuto viene in conclusione a mancare, quando s’avanzano i problemi dell’al di là.
Sara muto allora il nostro dire? Sarà cieca la visione?
No, certo, per Platone erede della dottrina tradizionale e simbolica di Pitagora. Qui è uno degli accenti più squisitamente originali e profondi della speculazione platonica. Ma di questo aspetto del mito-mistero non è qui il luogo di trattare. Qui intendiamo pervenire al mito-mistero del "Timeo" e del "Crizia"; questo mito ha carattere particolare sul quale e necessario far luce.
Mito-mistero quello della trilogia incompiuta, e tale, vorremmo dire, per ragioni estrinseche. La sede ove esso va ragionando non è posta al di là della vita e al di là della storia; l’argomento suo è nella storia stessa.
Soltanto i secoli, in rapporto alla comune durata di vita mortale, innumeri sono trascorsi e separano il nostro oggi da quelle remotissime età. In mezzo, fra noi e gli uomini che come per miracoloso gioco di luci vengono rievocati nella pagina del Maestro, vi è il silenzio di cose inesorabilmente cancellate, cose fatte nulla in oblio. Ebbene, oltre il compatto muro; oltre il grande deserto dei novanta secoli (tanti erano ai tempi di Platone; ora si tratta di cento secoli e dieci) dei quali per la massima parte più nulla sappiamo; ebbene, oltre, e quasi dal principio dell’umana istoria, giungono a noi voci, nomi, un sonito di gesta, un fragore di armi.
Come per nuova televisione, vediamo ancora profili di monti, selve, canali; palazzi, templi, castelli; e la forma d’isole e la forma d’un continente. Di tutto ciò nulla vi è più; il mare ha invaso; il mare ha distrutto; il diluvio ha annientato. Ma noi sappiamo di quelle isole il nome; anche dei re antichi sappiamo il nome. Quelle isole costituivano l’Atlantide e la famiglia dei re n’era sovrana. Questo è il mito dell’Atlantide, il racconto della Atlantide diremo noi traducendo alla lettera e sacrificando lo spirito; il mistero dell’Atlantide diremo con altra parola che rievoca in noi ciò che Platone voleva significare con la sua parola nella sua lingua.
È vero ciò che Platone narra? Questa, la domanda di chiunque s’avvicina al racconto Atlantico. È vero?
È fantasia? Platone s’allontana da noi per il transito supremo e non si cura d’aggiungere nulla, anzi il suo racconto resta per sempre spezzato: "Si raccolse dunque Zeus e prese la parola…". Cosi termina il "Crizia". E quale sia stata questa parola non sapremo mai. È vero? È fantasia? insiste la domanda inquieta.
Ed è appunto questo proporsi d’un interesse vivo, d’una viva partecipazione dello spirito nostro; d’una, diciamo la parola che piace a Platone, fascinazione o incantamento; è appunto tutto ciò che Platone con sapiente gioco di prospettive ha saputo creare; ciò il Maestro voleva. E in ciò è l’essenza stessa del mistero.
Certo, chi arriva alla "trilogia incompiuta", dopo aver percorso l’intero cammino dei dialoghi, costui. vede che a ben altre affermazioni, a ben altre potenti conclusioni Platone ha abituato l’anima sua. Ma costui vede anche che, se quelle potenti sono in pieno fulgore, qui, nel mito Atlantico, parola disputante (Platone dice "logos") si atteggia in penombre, qui si accentua la voce della probabilità ove prima era la certezza: l’essenza del mistero appunto con tutte le sue caratteristiche. Tutto ciò che noi possiamo chiedere, tutto ciò che possiamo trovare è un convergere di piani, un accennare di linee, una direzione insomma; ma la certezza, forse mai. È vero? È fantasia? Le stesse indagini recenti portano ad un grado assai elevato, quasi definitivo, gli elementi della certezza. La prova tuttavia, come dicono, palmare; il "non credo se non metto le mani"; la prova sperimentale non c’è, e forse non sarà mai. È stato tuttavia detto dal Maestro vero, un altro maestri di cui Platone può dirsi certamente figura; "beati qui non viderunt, et crediderunt".
E ciò, a proposito d’una vicenda in cui parimenti si desideravano prove evidenti, si desiderava di toccar con mano, si cercavano tutti quei ripari e tutte quelle precauzioni con cui intendono munirsi quelli che si chiamano comunemente spiriti forti, spiriti positivi; gli spiriti delle ragioni solide. "Beati qui non viderunt et crediderunt".
È vero? È fantasia? È indubitabile in ogni caso l’apporto d’una sintesi; indubitabile l’apporto di particolari singoli che Platone ha liberamente aggiunto. Chi legge con attenzione e questa lettura più d’una volta ripete, finisce per accorgersi dell’esistenza di due nuclei differenti per natura. Vi è un nucleo che ha un aspetto descrittivo, quasi un testo di geografia che riferisce caratteristiche singole d’una determinata regione. Buona parte del "Crizia" appartiene a questo nucleo e ad esso appartengono anche le pagine del "Timeo". Che danno indicazioni precise circa la fonte e anticipano poi le prime notizie sull’isola o sul sistema di isole che formavano l’Atlantide, con una esattezza e con una precisione di termini tale che soltanto ai nostri giorni, dopo la scoperta dell’America, può esser convenientemente apprezzata. Certissimamente nessuno dei contemporanei di Platone (vorremmo dire: nemmeno Platone stesso che scriveva quelle parole), nessuno dei posteri Platone per molti secoli ha potuto apprezzare.
"In quei tempi lontani era possibile valicare quell’immenso mare (l’Atlantico) perché in esso era un’isola; e quest’isola innanzi stava a quel stretta foce che ha nome, come voi dite, Colonne d’Ercole. Ed era, quest’isola, più grande insieme della Libia e dell’Asia.
E chi procedeva da quella, si apriva il passaggio ad altre isole, da queste isole ad un 'grande continente' opposto, intorno a quel che veramente è mare. Le parti invece interne alla foce (il Mediterraneo) di cui parliamo, appaiono essere quasi un porto di cui sia stretta e angusta la via d’ingresso. Oh! ma quello sterminato mare a veramente mare, e la terra che lo ricinge, con tutta verità si potrà dir continente (1)".
Com’è facile accorgersi, ("il grande continente opposto") e l’America e ("quello che veramente a mare") e la parte restante dell’Atlantico dopo le isole Atlantidi vicine più all’Europa che all’America. E a parer nostro basterebbero queste poche righe per eliminare ogni possibilità di discussione. Qui non si tratta di fantasia; d’altra parte nessuno ai tempi di Platone poteva sapere ciò che qui e detto. Ma chi ha detto ciò a Platone? Ma lasciamo stare. Questo nucleo descrittivo-geografico forniva dunque a Platone un assieme non omogeneo di notizie; un seguito di dati interessanti che tuttavia, per essere introdotti nel dialogo, dovevano esser sottoposti ad unificazione. Osserviamo di passaggio, che scopo avrebbero, se puro gioco di fantasia, taluni particolari cosi precisi? I canali concentrici (2), il sistema di canalizzazione, il rito del sangue? Altri particolari minuti, inutili al tutto se non corrispondenti a verità? La scrittura presenta insomma. evidente questo nucleo descrittivo al quale si aggiunge (e qui e l’apporto personale di Platone) l’altro nucleo a carattere narrativo.
Una vicenda storica, nella quale si trovò impegnato quell’impero di cui vengono descritte le caratteristiche geografiche e politiche. Platone ha cercato di far diventare narrazione storica, quella che era descrizione geografica. E i dati della descrizione evidentemente gli erano forniti; a renderne possibile l’introduzione nel dialogo, Platone ha cercato d’accostare il motivo d’una narrazione storica: ecco il motivo della guerra degli Atlanti e della grandezza di un’Atene preistorica.
È avvenuto allora che questa parte che avrebbe dovuto avere importanza .massima è riuscita, generica e infusa di accenti particolari alla stessa speculazione dello scrittore (la descrizione d’Atene preistorica è parafrasi della "Politeia"); mentre l’altra è riuscita piena, viva, completa. Non solo ma, ancor di più, la parte storica non ha avuto sviluppo; essa è semplicemente enunciata; "compiuta infatti la descrizione dell’Atlantide, quando dovrebbe cominciare la narrazione della guerra il dialogo subitamente s’interrompe".
Pare a noi non si sia osservato abbastanza questo fatto.
Esso è una prova molto importante; esso ci rassicura di veridicità per il nucleo descrittivo. Platone ha si preparato il racconto delle guerra, ma ciò ha fatto fino al momento in cui c’era in lui viva l’attesa per esporre la parte proveniente dalla fonte sacerdotale egiziana.
Compiuta l’esposizione, il Maestro cui non potevano interessare vaghe fantasie ha troncato improvvisamente ogni cosa. Venuto insomma a mancare l’appoggio della fonte, svaniva, anche l’interesse e il dialogo e la trilogia stessa sono rimasti per: sempre incompiuti. D’altra parte ciò ch’era stato detto aveva la sua concretezza e la sua verità. Platone non solo non distrusse e frammento, ma lo corresse e lo portò a completa finitura. Il che se si osserva, non sarebbe avvenuto probabilmente, se avessero avuto importanza le sole ragioni che condussero Platone a trascurare l’ulteriore svolgersi della scrittura.

NOTE:
1. "Timeo", 24 e segg. Sarebbe da aggiungere anche l’accenno al mare dei Sargassi ("Crizia", 109a).
2. È notevole: gli storici della conquista spagnola descrivono la capitale degli Aztechi attorniata da canali e da bacini; ciò si vede dal disegno rimasto dai tempi dell’ultimo loro re. L’essenza in questi piani è un complesso intreccio d’acqua e terra in anelli concentrici.

giovedì 28 maggio 2009

Crizia: l'incompiuta di Platone?

Antonio USAI
archeomedia.net
Per anni gli storici moderni si sono scervellati nella ricerca del motivo per cui Platone non avesse terminato il "Crizia". Eppure leggendo "il Timeo" di Platone, si incappa in un passo nel quale è scritto da chi e il motivo per cui il "Crizia" non è stato portato a termine.

Infatti il cap. III del "Timeo" 21/22, parlando delle Apaturie, recita così: Ora uno della nostra tribù, sia che allora così pensasse, sia anche per compiacere a Crizia, disse che Solone gli sembrava essere stato non solo il più sapiente nelle altre cose, ma anche nella poesia il più nobile di tutti i poeti. Allora il vecchio, perchè lo ricordo bene, molto si rallegrò e sorridendo disse: Ma se egli, o Aminandro, non si fosse occupato superficialmente della poesia, ma seriamente, come altri, e avesse compiuta quella storia, che qui aveva portata dall' Egitto, e non fosse stato costretto a trascurarla per le sedizioni e gli altri mali, che trovò qui nel suo ritorno, né Esiodo, né Omero, né alcun altro poeta sarebbe stato, come io penso, più glorioso di lui. - E qual era - quello domandò - questa storia, o Crizia?-. La storia - rispose Crizia - dell'impresa più grande e più degna... ecc.ecc.

Questi passi del "Timeo" di Platone, fanno parte di uno dei vari "Timeo" che ho consultato, e tutti riportano questi passi:
- Bur:...e avesse completato il racconto che aveva portato qui dall'Egitto...
- Laterza, gia riportato sopra,
- Newton:...e avesse terminato quella storia che portò sin qui dall'Egitto.. -- e altri.

Quindi è stato il grande legislatore ateniese Solone a non terminare il racconto su Atlantide, e ne consegue che: come poteva Platone terminare il racconto di Solone, il quale per primo non l’aveva terminato?
Il motivo per il quale Solone non ha terminato il racconto: e non fosse stato costretto a trascurarla per le sedizioni e gli altri mali, che trovò qui nel suo ritorno,..

Ma nonostante ciò, alcuni studiosi affermano che, probabilmente, Platone si è inventato tutto per rappresentare la grandiosità di Atene, oppure che non ha completato il Crizia per dedicarsi alla stesura delle ”Leggi”.
Ma quest’ultima teoria si scontra con uno storico che sembrerebbe dire qualcosa di credibile: Plutarco (50 d.C. circa) che in “Vite parallele 1 Solone” parlando di Platone al 32.1 dice: Platone nell’ambizioso tentativo di trattare con ampiezza e abbellimenti l’argomento dell’Atlantide…. cominciò l’opera.… Senonché, avendo cominciato tardi a scrivere, terminò prima la vita che l’opera…
- Secondo Plutarco,quindi, Platone non termina il racconto perché muore. Però questo, a sua volta, contrasta con quanto afferma Aristotele, e cioè che l’ultima opera di Platone sono le “Leggi”. E Aristotele era un discepolo di Platone. Quindi Platone non può essere morto mentre scriveva il ”Crizia”. E non c’è neanche nessuno storico antico che sostenga che il “Crizia” sia stasto abbandonato per la stesura delle ”Leggi”. E su quanto afferma sempre Plutarco in ”Vite parallele” a proposito: dell’ambizioso tentativo (da parte sempre di Platone) di trattare con ampiezza e abbellimenti l’argomento dell’Atlantide (quindi inventando)…- sorgono 2 problemi:
1°: dove finirebbe il racconto incompiuto di Solone, e dove inizierebbe quello inventato da Platone?
2°: il passo di Plutarco, assieme alla teoria che il racconto sia tutto inventato, si scontra, a sua volta, contro quella corrente capeggiata da Crantore di Soli (IV sec. a.c. 1° commentatore del Timeo) che affermava la veridicità totale del racconto di Platone.

Inoltre se si accettasse, come motivo dell’inconpiuta, la morte, si potrebbe anche supporre che Platone sia morto non come dice Plutarco durante: l’ambizioso tentativo -, ma più semplicemente mentre riportava nei suoi scritti il racconto di Solone, che, per ironia della sorte, sarebbe rimasto, se fosse successo così, più incompleto dell’incompiuta stessa di Solone.

A meno che Platone non sia morto proprio sull’ultima parola del racconto di Solone. Ma non potrebbe essere, ancora più semplicemente, che Platone abbia lasciato il racconto incompiuto dove l’ha lasciato incompiuto Solone, senza aggiungere, ne omettere niente?
Non è poi così tanto strano. Accettando, invece, la teoria dell’invenzione del racconto e non terminato per dedicarsi alle “Leggi”, se vogliamo potremmo estrapolarne anche una storia con un risvolto buffo: Platone, intuendo che non sarebbe riuscito a terminare il racconto, si inventa il motivo dell’incompiuta del Crizia un libro prima, cioè nel Timeo, quando parla di Solone che non termina il racconto portato dall’Egitto.
Ne consegue che la colpa ricade su Solone.

Apro, ora, una parentesi per dire che c’è, a mio avviso, un indizio molto forte che scagiona Platone dall’accusa di aver inventato il racconto, ed è quando Crizia, nel Crizia, dice: …una pianura circondasse la città, e questa pianura di tremila stadi da una parte e di duemila dal mare fino al centro…. I monti che lo cingevano si diceva che superassero per numero, grandezza e bellezza tutti quelli ora esistenti (e qui fa anche capire che quell’isola c’è ancora, come scrive anche Vittorio Castellani; a mio avviso “sparisce sotto le acque” quell’isola formata dalle tre cinte di mare e due di terra)….lo rendeva diritto una fossa scavata all’intorno.
Non è credibile quel ch’è stato tramandato sulla profondità e larghezza e lunghezza di questa fossa,che cioè,come opera umana, avesse oltre al restante lavoro tali dimensioni; però bisogna dire quel che abbiamo udito.

Crizia non si meraviglia affatto delle misure enormi dei monti e della pianura, cioè di cose che fanno parte del paesaggio naturale (d'altronde lui mica li ha visti quei posti; quindi perché non crederci?), contesta solo le dimensioni enormi di quelle opere che avrebbe costruito l’uomo. E questo induce a pensare che quelle misure non si riferiscono all’unità di misura dei greci che era lo stadio (da 177 a 210 metri a secondo delle regioni), ma ad altre unità di misura. Quindi, per l’accusa, Platone, che era un filosofo, sarebbe stato così ingenuo da pensare che le persone avrebbero creduto ad un racconto del genere, con quelle dimensioni spropositate?

Oppure, peggio ancora, Platone avrebbe avuto una mente così contorta da “architettare” un racconto (vedere anche alcune righe più su quando scrivo di una storia con un risvolto buffo) in cui, per farlo credere veritiero, fa dire a Crizia, dopo averle scritte di proposito, che quelle opere con quelle dimensioni non sono credibili, in modo tale che le persone pensino quello che anch’io ho pensato, e cioè che quelle misure sono sballate, e di conseguenza anche tutte le dimensioni dell’isola non devono essere misurate in stadi ma in altre unità di misura? Platone ha fatto questo? Forse bisognerebbe rifletterci un po’ sù.

Chiusa la parentesi e tornando all’”incompiuta”, concludo dicendo che comunque girandola come si voglia, questa storia ha solo una e incontestabile certezza e cioè che l’unico vero artefice dell’incompiuta del racconto su Atlantide è stato il più saggio dei 7 sapienti di Atene: Solone. Che al povero Platone, sia resa un po’ di giustizia.

P.s.:

Platone-Crizia: .. e Poseidone, preso d’amore, giacque con essa: e per ben fortificare il colle, in cui quella abitava,lo spezzò d’ogni intorno, e vi pose alternativamente cinte minori e maggiori di mare e di terra, due ti terra e tre di mare, che quasi descrisse in cerchio dal centro dell’isola,…

Dal libro di Paolo Valente Poddighe “Atlantide Sardegna”: 53) Sira, era la proto Cagliari, ed era questa, come agglomerato Sacro, situato in una delle isole della laguna di Santa Gilla. È categorica per la localizzazione di Sira, l’incisione su rame risalente all’anno 1540, ove Sebastian Munster, ben addentro, del golfo di Cagliari la pone. La laguna aveva forma circolare, forma questa derivata sia dalla conformazione del suolo che dalle opere di steccati (a legname interposte) e da muraglie concentriche ad anello che, seguivano per tracciato, sponde contrarie artificiali e a poliedrico uso.

Nelle mie ricerche il nome Sira si trova in una cartina di un libro su Tolomeo e Munster (vedere cartine) e non è certamente la proto-Cagliari.
Era forse l’antica Neapolis? Oppure si trovava presso lo stagno di Cabras, nel golfo di Oristano? Se,come dice Poddighe (restìo a dare informazioni a riguardo), esiste questa incisione su rame con quella descrizione, sarebbe una semplice coincidenza? Platone è venuto in Sardegna prima di iniziare la stesura del Timeo e del Crizia? Oppure….

Libri consultati:
Platone Le opere ed. Newton, Roma, sett.2005;
Platone Opere complete 6 ed.Laterza Bari 2003;
Platone Timeo ed. Bur Milano 2003;
Plutarco Vite parallele 1 Solone e Publicola Torino nov.2005;
Varie enciclopedie
Atlantide Sardegna, Paolo Valente Poddighe, Stampacolor Industria Grafica, Muros (SS) Agosto 2006
Claudius Tolomeus, PTolomaus-Munster Geografia Basle 1540 Edizioni Sebastian Munster presso Biblioteca dell’Università area Umanistica di piazza d’Armi in Cagliari;
Quando il mare sommerse l’Europa di Vittorio Castellani ed. Ananke Torino 07/2005.