venerdì 31 gennaio 2014

La battaglia per l'acqua nel futuro dell'umanità

acqua

 Il deficit di acqua dolce può causare conflitti armati, affermano gli scienziati. Oggi circa 700 milioni di persone in 43 paesi soffrono per la carenza dell'acqua. Entro il 2015 a causa del cambiamento globale del clima e crescita della popolazione sul pianeta questa cifra supererà tre miliardi. 

 Secondo il parere degli esperti, la principale minaccia di futuri conflitti è la distribuzione delle risorse idriche in modo disuguale. Dunque il fabbisogno minimo del consumo d'acqua per una persona al giorno è di 20 litri. Circa un miliardo di persone sulla Terra però possono utilizzare soltanto 5 litri al giorno. Il deficit più acuto d'acqua si sente in Medio Oriente, in Cina, India, nell'Asia Centrale, nei paesi dell'Africa Centrale e Orientale.

Per il continente africano l'accesso all'acqua dolce è un problema di sicurezza dello stato, ritiene Marina Sapronova, professore della cattedra degli studi orientali dell’Università Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali (MGIMO). Perciò la decisione dell'Etiopia di costruire la diga sul Nilo Blu ha suscitato un forte malcontento da parte dell'Egitto. Nello stesso tempo l'Etiopia sta costruendo nel corso superiore del Nilo una potente centrale elettrica che potrà fornire l'energia anche agli stati confinanti. 

L'Egitto teme che dopo la costruzione della diga sarà privato di un quarto delle proprie risorse idriche, fa notare la donna:
Per l'Egitto il problema sta nel fatto che praticamente il 98 percento della popolazione vive nella valle del Nilo. Rispettivamente non è soltanto la questione di approvvigionamento di generi alimentari, ma anche di produzione industriale, della sicurezza nazionale. Storicamente questo stato è nato nella valle del Nilo e tutta la sua storia è legata alle sue acque. Il problema principale è che oltre all'Egitto ci sono altri 10 stati dell'Africa Centrale e Orientale a sfruttare il Nilo. E inoltre sono grandi stati come il Sudan, l'Etiopia, Kenya, Ruanda, Uganda, Tanzania. La popolazione complessiva di questi stati fa oltre 300 milioni di persone. Nell'ultimo decennio il Sudan e l'Etiopia hanno iniziato a svilupparsi anche sul piano economico - cresce la produzione industriale. Tutto ciò richiede l'aumento del consumo dell'acqua del Nilo e l'aumento della produzione dell'energia elettrica per aumentare la potenza industriale .

Nell'Asia Centrale già da qualche anno è in corso la disputa tra Uzbekistan e Tajikistan a causa del fiume Vahsh, un affluente dell'Amu Darya. Dushanbe sta costruendo su Vahsh la centrale elettrica di Rogun. Tashkent è decisamente contraria, temendo la riduzione dello scolo di Amu Darya, ciò che arrecherebbe un colossale danno all'agricoltura. 

I reciproci contrasti sono arrivati al punto tale da non poter praticamente più risolverli senza intervento internazionale, ritiene Andrei Grozin, responsabile della sezione dell'Asia Centrale e del Kazakistan dell'Istituto dei paesi della CSI:
Purtroppo i rapporti tra Dushanbe e Tashkent non sono tra i migliori. Inoltre questa situazione si osserva già da molti anni. Il problema sta che all'epoca dell'Unione Sovietica i rapporti tra gli stati dell'Asia Centrale con l'abbondanza dell'acqua e con il deficit dell'acqua sono stati regolati da Mosca ed esisteva una certa armonia che permetteva agli stati situati nell'alto corso fluviale di costruire centrali elettriche e agli stati situati nel basso corso fluviale di on temere il deficit dell'acqua.

Secondo i pronostici degli scienziati, tra 50 anni le riserve dell'acqua potabile diminuiranno di un terzo, se non addirittura si dimezzeranno. Non sono soltanto le conseguenze del riscaldamento climatico globale sulla Terra, ma anche non razionale, e a volte barbarica, utilizzazione dell'acqua. Se l'atteggiamento dell'umanità verso questo problema non cambierà, allora non si riuscirà senz'altro a evitare conflitti armati a causa dell'acqua.

venerdì 18 ottobre 2013

Lampedusa: perseguitare i vivi, premiare i morti


Lampedusa: perseguitare i vivi, premiare i morti

Santiago Alba Rico Σαντιάγκο Άλμπα Ρίκο سانتياغو البا ريكو 
Tradotto da  Francesco Giannatiempo



Parlando della tragedia di Lampedusa, c’è poco da aggiungere ai lamenti ipocriti delle autorità europee e alle giustissime denunce degli attivisti, delle organizzazioni e dei migranti. Anni fa, il teologo costaricano di origine tedesca,  Franz Hinkelammert, riassunse in due parole questa routinaria abbondanza di cadaveri raccolti nei mari e nei deserti nelle frontiere d’occidente: “genocidio strutturale”.

L’idea di “genocidio strutturale”, certamente implica un’accusa: le strutture non si impongono da sole, bensì necessitano di decisioni politiche che le facciano funzionare; decisioni politiche che, eventualmente, potrebbero disattivare. Quando una struttura alla propria fonte è incompatibile con la Dichiarazione dei Diritti Umani e con la più elementare dignità umana, le decisioni che vengono prese per tenerla in attività acquisiscono un’aura necessariamente truculenta, un’ aria di ludica crudeltà infantile, la forma di un grande sbadiglio nichilista. Penso che Barroso e Letta non avranno gradito di venire ricevuti a Lampedusa al grido di “assassini”. Non si sentono “assassini”e, probabilmente, la pila di cadaveri accumulati ai loro piedi gli trasmette un orrore sincero. Ma devono ingoiare gli insulti e i rimorsi di coscienza rispondendo in modo responsabile ai propri compromessi con la “struttura”. Compromessi da cui, in certa misura, dipendono anche i voti dei loro elettori.
La verità è che le misure prese dall’UE e dal governo italiano trasformano i nostri governanti in una specie di disegnatori fantasiosi di gincane infantili, o meglio, di avvincenti concorsi televisivi.Evitiamo di essere più pietosi di loro! Aumentare il finanziamento per i CIE, rafforzare la sorveglianza nel Mediterraneo e concedere la nazionalità ai morti -mentre si continua a perseguitare i sopravvissuti – ci conviene ed è per altro divertente, giacchè trasforma i movimenti migratori nel più costoso sport estremo del mondo: pagate migliaia di euro per l’iscrizione, oh giovani avventurieri, e lanciatevi in mare mille volte schivando tempeste e motovedette; se toccate terra vivi, come nel gioco dell’oca, vi riporteremo al punto di partenza; come nel gioco dell’oca, vi chiuderemo in prigione e vi obbligheremo ai lavori forzati clandestini; come nel gioco dell’oca, esposti a ogni genere di spregio e abuso. E non si può vincere? Come si vince in questa gara? Morendo! Se morite sulle nostre spiagge, giovani avventurieri, un dolce velo di pietà universale coprirà i vostri corpi e riceverete, inoltre, il grande premio, il sogno finalmente compiuto, la grande ambizione della vostra vita alla fine soddisfatta: la nazionalità italiana.
Questo macabro gioco, ovviamente, ha a che fare con la “struttura”. Ha a che fare, come diceEduardo Romero citando Marx, con il nostro “desiderio appassionato del lavoro più economico e servile” - una scelta “negriera”- e con il nostro scarso rispetto per le frontiere altrui: intervento economico in nazioni saccheggiate, accordi con dittatori e violazione fisica della sovranità territoriale. Una buona parte delle vittime di Lampedusa, per esempio, provenivano dalla Somalia, nelle cui acque le navi di noi europei depositano scorie inquinanti e rubano il tonno per le nostre tavole. Non dimentichiamo che, mentre decine di somali morivano affogati sulle coste italiane, un tribunale spagnolo giudicava di pirateria alcuni ex-pescatori di questo ex-paese africano”.
Però, quest’idea di premiare i morti con la nazionalità postuma - mentre si puniscono i vivi per essere sopravvissuti – comporta una dichiarazione di guerra e un malinteso razzista. A questi giovani che credono nella libertà di movimento e nel diritto a una vita migliore, gli si sta dicendo che saranno accettati e integrati in Europa solamente una volta morti, come cadaveri gonfiati dall’acqua, e soltanto se muoiono alla vista di tutti e in numero sufficiente per non poter essere nascosti sotto il tappeto. Vi vogliamo morti. O, parafrasando un vecchio detto: l’unico immigrante buono, l’unico immigrante assimilabile è l’immigrante morto.
Al contempo, il premio della nazionalità postuma è un atto di propaganda razzista, che presuppone e induce l’illusione che i somali, gli eritrei e i siriani naufragati a Lampedusavogliano essere italiani. In un momento in cui ci sono più italiani - e spagnoli – che non vogliono più essere italiani – e spagnoli – e che abbandonano per forza il proprio paese, i morti di Lampedusa – vincitori di questa gincana nichilista – illuminano una falsa Italia (o Spagna) desiderabile, appetibile, ricca e democratica, alle cui bontà aspirerebbero milioni di persone di tutto il mondo.
È una menzogna: non vogliono essere italiani (o spagnoli). Uno dei giornalisti che ammiro di più – l’italiano Gabriele del Grande – sono anni che conta, soprattutto, dà un nome alle vittime di questo “genocidio strutturale”. Mamadou và a morire è l’eloquente titolo di uno dei suoi libri. Orbene, dopo il massacro di Lampedusa, Del Grande ricordava alcuni dati elementari: che la maggior parte degli immigranti non entrano via mare; che molti di loro hanno provato a entrare prima attraverso la via legale; che sono molti di più quelli che escono di quelli che entrano; e che, in effetti, l’unica forma di fermarli è ucciderli (all’origine, durante il viaggio o a destinazione). E si lamentava con amarezza del ruolo dei mezzi di comunicazione che li trattano, al pari dei politici, come meri “oggetti” di un dibattito o di un’immagine, in modo che “i veri protagonisti” – i migranti vivi e quelli morti – non abbiano alcuna voce, né un nome, né una ragione. Del Grande, che ha viaggiato e condiviso con loro lavori e piaceri, descrive questa ostinazione di tanti africani ad attraversare le nostre frontiere come “il maggior movimento di disobbedienza civile contro le leggi europee”. E considera che “se un giorno tornasse la pace nel Mediterraneo e ci fosse libera circolazione, i morti di oggi si trasformerebbero in eroi di domani e si scriverebbero romanzi e si farebbero film su di loro e sul loro coraggio”.
Non vogliono essere italiani nè spagnoli nè greci. Conservano i propri legami affettivi e culturali. E lo fanno con molto orgoglio, come dimostrano le rimesse inviate ai paesi d’origine (o il fatto che siano le famiglie che risparmiano il denaro che permetterà al più giovane e coraggioso dei propri membri pagare il mafioso locale e imbarcarsi per l’Europa). Non vogliono essere italiani né spagnoli né greci, sebbene sì vogliono avere alcuni dei diritti che gli italiani e gli spagnoli e i greci sono sul punto di perdere. Reclamano il diritto di andare e venire e il diritto di rimanere nelle proprie abitazioni: a viaggiare e a non viaggiare, a lavorare, ad avventurarsi, a conoscere altri luoghi, ad amare altra come la propria gente. Non sono diversi da noi e, se a volte hanno una vita molto più difficile, sono pure più valorosi, più “intraprendenti”, più vitali, più capaci e meno cinici.
Può essere che esistano buone ragioni – economiche ed ecologiche – affinchè si limitino i flussi; ma, allora bisogna che cominci per le merci e per i turisti: si muovono molto più gli europei degli africani, e con un costo molto più alto. E ad ogni modo, il diritto universale al movimento, che implica anche il diritto a non muoversi e il diritto a ritornare, non lo si può applicare in maniera selettiva con criteri etnici, razziali o culturali, e meno lo si può imporre o proibire con la forza. Qualunque siano gli alibi “strutturali”, mai l’Europa potrà pretendere di essere democratica e illuminata, mentre l’omissione di soccorso, la scelta “negriera”, il finanziamento di campi di concentramento e la criminalizzazione della semplice sopravvivenza costituiscono la normalità antropologica e giuridica delle proprie popolazioni e delle proprie leggi.
Il Mediterraneo unisce le coste e separa i suoi abitanti. Non lasciamoci ingannare dalla tragica immagine di questa fessura piena di acqua e di morti; nemmeno dalla direzione dei flussi umani. Il nord e il sud del Mediterraneo si somigliano sempre di più. Mentre abbiamo l’impressione che siano loro a venire verso di noi, in realtà siamo noi ad andare verso di loro. Molto in fretta. E converrebbe che, da entrambi i lati, insieme si trovasse una soluzione, e che diventiamo volontariamente un po' africani, prima che i nostri governi inizino ad applicare le leggi sugli stranieri  - come già inizia a succedere – ai propri cittadini. Stranieri, terroristi, poveri, malati: Spagna -e Italia e Grecia - si stanno riempiendo di spagnoli postumi; vale a dire, di spagnoli virtualmente morti.




Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://www.cuartopoder.es/tribuna/lampedusa-perseguir-los-vivos-premiar-los-muertos/5133
Data dell'articolo originale: 12/10/2013
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=10743 

giovedì 12 settembre 2013

EORONIO/ FORONIO di Sedilo. Un grido tragico e un 'nome' grottesco per un ladrone 'illustre'?

EORONIO/ FORONIO di Sedilo. Un grido tragico e un 'nome' grottesco per un ladrone 'illustre'?

di Gigi Sanna

Recentemente Aba Losi ha pubblicato un articolo riguardante alcuni cippi funerari sardi assai difficili da inquadrare culturalmente e temporalmente e ancora, dal punto di vista del contenuto epigrafico, di controversa interpretazione. Uno di essi è quello noto di Sedilo che reca (o sembrerebbe recare) il nome di un defunto o di un dio chiamato Foronto (1).


        La lastra fu trovata dal prof. Natale (noto Natalino) Sanna (2) nel 1955 che nella rivista Frontiera del mese di luglio del 1968 (quindi 13 anni dopo) la pubblicò con un non breve commento nel quale, oltre al fornire tutte le informazioni riguardanti il rinvenimento del manufatto (sito e data della scoperta (3), contesto archeologico, forma e misure, successiva sua sparizione e probabile distruzione), si sofferma sul dato epigrafico parlando dell'interesse del reperto per la 'faccina' in altorilievo e, soprattutto, per la scritta insistente sulla parte mediana di esso.



     Il professore sedilese da buon epigrafista e onesto professionista avverte subito che la sua prima trascrizione (sulla quale contava - come dice - di ritornare) è affidabile sino ad un certo punto e che le foto (da lui scattate subito dopo il rinvenimento) non aiutano più di tanto a rendere il testo perfettamente leggibile: “Anche se le fotografie possono aiutarci, bisogna tener conto della scabrosità della pietra, per cui una linea potrebbe essere un casuale effetto d'ombra, anziché un segno intenzionale dello scalpellino, mentre, per contro, una illuminata dai raggi del sole che la colpiscano nel senso della lunghezza può quasi scomparire'. La penultima lettera, che in qualche fotografia sembra una T, in un'altra che è stata staccata a distanza più ravvicinata, può apparire come una I. Anche la prima lettera è, dalle fotografie, poco chiara. Potrebbe essere una  E , potrebbe essere una F con l'apice basso curvato, potrebbe essere C  o una G” (4).

  Insomma dall' analisi epigrafica, continua Natale Sanna, dati i dubbi esistenti solo sul primo e sul penultimo segno, possono risultare  queste soluzioni:

FORONTO/FORONIO
EORONTO/EORONIO
CORONTO/CORONIO
GORONTO/ GORONIO

E' da questa precisa (e direi esaustiva) analisi epigrafica che dobbiamo partire anche noi, dicendo subito che la sua soluzione circa l'esistenza di un GORONIUS  'nume tutelare della tribù'  non ci trova consenzienti non solo per alcuni motivi di carattere grammaticale e fonetico- linguistico (con insorgenza di difficoltà ammesse anche dal proponente) ma soprattutto per il fatto che mai, né allora né oggi, è stato trovato il nome di un dio tutelare di Borore/Gorore a nomeGoronius (5).

   Evidentemente la soluzione va trovata altrimenti, ma pur sempre sulla base epigrafica proposta dallo studioso la quale, una volta eliminati il CORONTO/CORONIO e il GORONTO/GORONIO, offre FORONTO/FORONIO e EORONTO/ EORONIO.
   Ora, come è da escludere un (per altro assai faticoso) GORONTO/GORONIUS inesistente così è da escludere il nome di una divinità di nome FORONTO (ipotizzata da alcuni) ugualmente mai attestata in nessun luogo, né in Sardegna né altrove.

   Per detta esclusione rimangono dunque i dati epigrafici di FORONIO/ EORONTO/ EORONIO, dati che subito possono ridursi solo a due in quanto EORONTO  non risulta essere un nome e tanto meno un verbo nonostante un' uscita finale possibile (- nto) .
  Che significato dunque può avere una scritta così 'lapidaria', FORONIO/EORONIO, di concisione epigrafica tale che si riduce ad appena sette lettere? La logica  porta a prendere in considerazione  due sole possibilità: o il cippo funerario reca  un'espressione molto breve  oppure un nome di persona, cioè il nome stesso del defunto. Quest'ultima ipotesi sembrerebbe la più percorribile proprio per la brevità del testo.  Ma FORONIO oppure  EORONIO  non sembrano, sulle prime almeno, suggerire significato alcuno, così come tutte le altre precedenti ipotesi epigrafiche. Non esiste un nome di persona  FORONIO o EORONIO.

    Resta a questo punto solo un'ipotesi, quella del rebus, cioè  potrebbe essere che lo scriba lapicida abbia  giocato con i segni (6) onde rendere la sequenza consonantico - vocalica  volutamente enigmatica, oscura e, parzialmente o totalmente, non comprensibile ai più. E che ciò abbia fatto sulla base di quelle (ed altre, come vedremo) ambiguità che tutti, già a partire dal prof. Natale Sanna, notiamo ma senza chiederci a fondo del perché. Come se quelle fossero solo semplici ambiguità obiettive epigrafiche e  non ambiguità soggettive e prodotte a bella posta dallo scriba,

  Se osserviamo la scrittura riscontriamo subito una notevole sicurezza nel riporto delle singole  lettere. Tutti i segni, che possono paleograficamente essere interpretati indifferentemente come romani o greci, sono riportati perfettamente, con l'eccezione del primo, per il quale l'indecisione e l'approssimazione grafica risultano notevoli  e del penultimo che però, stando alle avvertenze di chi per primo trascrisse il testo, potrebbe essere composto da una semplice vocale e cioè una 'I' e non da una T, con il tratto superiore orizzontale staccato da quello verticale come segno apparente, non pertinente e forse non esistente. Insomma, stiamo cercando di indagare  se la soluzione della oscura sequenza fonetica possa trovarsi in quella iniziale ambiguità e/o in qualche altra ambiguità insita negli altri segni.

   Procediamo dunque osservando la serie consonantico -vocalica con la prima soluzione, ovvero quella di  FORONIUS, tenendo presente l'ipotesi che il segno iniziale sia una 'F'. Credo che non possa sfuggire a nessun linguista che  la radice della parola è composta da FUR/FOR, varianti  che  sono, rispettivamente, quella latina di FUR,FURIS e quella greca di φώρ, φωρός. Ma non solo. Non può sfuggire neppure che anche in lingua sarda abbiamo la stessa radice FUR, ma con il particolare non trascurabile che essa si manifesta più completa in quanto porta anche lo stesso suffisso  presente nella lapide e cioè -ONI : FURONI.

   Ma, si obietterà subito, FURONI non è FORONI e FURONI non è FORONIO. Abbiamo la difficoltà di una vocale diversa nel primo caso e di un' aggiunta vocalica nel secondo. Certamente. Ma è qui che, a mio parere,  si manifesta la fantasia e la bravura maliziosa dello scriba: perché non certo a caso ma per un motivo ben preciso ha reso ambigua la prima lettera (E/F), grecizzando (FOR al posto di FUR) e latinizzando (dativo in -o per la dedica: lastraper) il nome (il nomignolo) di FURONI.
   Ciò però si capisce ancora meglio se uno non si fa ingannare dalla  'scriptio continua' e riesce a leggere in greco la sequenza EORONIO (con il primo segno non più con valore di 'F' ma di  'E'), la quale va scissa in EORON IO (ΕŌΡŌΝ ΙΟ: ἐώρων ἰώ) che in greco significa ' potessi io vedere (la luce), ahimè' (7).

   E' appena il caso di dire che nella lingua greca  il verbo ' ΟΡΑΩ' sottintende facilmente  il 'ΦΑΟΣ' e cioè la luce del sole (NUR in semitico nuragico). Verbo che in questo senso, com'è noto, è già da tantissimo tempo omerico (8). Mentre  IŌ/IΩ  è voce assai frequente nel linguaggio tragico per notare il grido di dolore (9) e usata nelle lapidi mortuarie (sino al IV -III secolo a.C.) forse per imitazione della lamentazione funebre (10).

   Se le cose stanno così, come ritengo che stiano, si capisce perfettamente il significato singolare, quasi impensabile, di scherno impietoso che assume il documento funerario dell'anonimo FURONI del cippo di Sedilo.Foronio non è altro che il nome 'volgare' del ladro (tragicamente) 'illustre' grecizzato e romanizzato, quello che tutti gli alfabetizzati potevano facilmente comprendere anche se lievemente alterato. E' come se il nostro 'ladrone' - un noto ladrone ovviamente – venisse per scherno e disprezzo pubblico additato in una lastra funeraria con un 'epico' e nobile 'ladronius'.

   Il risultato della grecizzazione FUR > FOR offre allo scriba lapicida  lo spunto per dare il nome grottesco al particolare defunto. Ma non solo. Offre la possibilità della resa di una doppia lettura (lettura a rebus), con l'inserimento di una espressione di dolore nascosta, con un epifonema tipico dei testi funerari (11); lettura stavolta non accessibile, ovviamente, se non a coloro che conoscevano la lingua greca. Infatti, il grido (IŌ) di dolore di FURONI/EORONIO, con l'imperfetto (EŌPŌN) tipico del desiderio irrealizzabile nel presente,  non è certo un tocco di umanità o un grido di 'pietas' posto nella lapide da parte dello scriba e (sicuramente) sacerdote.  E' invece il grido della disperazione del defunto, messo nella bocca di chi ora sa bene, per le sue malefatte, che la luce mai potrà (ri)vedere.  Dalla tomba, prigione definitiva con buio eterno (sembra essere anche questa l'allusione sottile della scritta), un 'furoni' (12) non può che emettere quel terribile tragico grido.

    Forse, dato il particolarissimo tenore della lastra funeraria sarda, sarà bene chiudere ricordando con quale estrema severità la Carta de Logu, il famoso codice sardo di leggi penali e civili con ispirazione  indigena, talora remotissima, tratta in un capitolo apposito (13) dei 'ladri' ovvero, in lingua sarda cosiddetta 'arborense', dei 'furonis'. Di Sedilo, di Abbasanta, di Aristanis o di altri luoghi che fossero del Logu (o del Regno giudicale che dir si voglia).                
    
Note esplicative e riferimenti bibliografici  
       
1)   V. Frau B., Che fine ha fatto Foronto?, in Logos, 2004,X 8,15 -19;  Stiglitz A., Un'isola meticcia: le molte identità della Sardegna antica. Geografia di una frontiera. Bollettino di Archelogia on line I 2010. Volume speciale, A/A3/3.
2)   Nativo di Sedilo (1918 - 1999) il prof. Natale Sanna è stato un ottimo docente ed un illustre studioso. Laureatosi in lettere all'Università di Cagliari nel 1941, ha insegnato per un certo tempo nel Liceo Ginnasio 'De Castro' di Oristano, per poi passare al Liceo 'Dettori' di Cagliari ed infine all'Istituto magistrale 'Eleonora d'Arborea' della stessa città.  Si è sempre occupato di storia della Sardegna. Ha pubblicato nel 1964 la prima edizione di  Il cammino dei Sardi (Fossataro). E' autore della parte riguardante "La Sardegna contemporanea (dal 1870 al 1924)" in AA.VV. Breve storia di Sardegna edita dall'ERI nel 1965 e di "La Sardegna dal 1870 alla prima guerra mondiale" in AA.VV. La Società in Sardegna nei secoli", ed. ERI 1967. Ha pubblicato nel 1986 la seconda edizione di  'Il cammino dei Sardi. Storia, economia, letteratura ed arte di Sardegna, (ed. Sardegna), un'opera in tre volumi che, sostituendo il vecchio testo storico 'Storia di Sardegna' di R.Carta Raspi, si è fatta apprezzare e si fa apprezzare ancora oggi per la chiarezza e soprattutto per qualità di precisione e di sintesi.
3)   Per la data precisa, con la modifica di essa rispetto a quella fornita dal Sanna,  si veda il bell'articolo  di Frau B., Che fine ha fatto Foronto?, cit. pp. 16 -18.
4)   Frau B., cit. pp. 15 -16.
5)   Frau B., cit. p. 16.
6)  Il lusus del rebus, più o meno accentuato, è abbastanza frequente e documentato nelle lapidi mortuarie della classicità. Si veda, per il greco tardo (quello che qui interessa) l'epigrafista M. Guarducci,  la quale  si sofferma, in particolare, sull'uso dell'acrostico  ('amore per l'artificio e per l'arcano', spiega la studiosa ) al fine di non rendere subito visibile ed afferrabile il nome del defunto ( M. Guarducci, L'epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Libreria dello Stato. Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 2005, Epigrafi sepolcrali, p. 388). Per la documentazione in Sardegna si veda in proposito il noto documento lapideo con scrittura in mix (sardo - latino e greco-etrusco), sempre di carattere funerario, di Giorre Utu Urridu, rinvenuto in agro di  Allai (S'isca de su nurachi)  nel 1984 dal rag. Armando Saba, funzionario della RAS  e pubblicato dal prof.  M. Pittau  dieci anni dopo  con un commento critico.
7)  Forse sarà bene rammentare circa l' EOPON/EŌPŌN e l'IO/ IŌ che il greco per un lungo periodo, in età arcaica e classica e forse anche recente, IV/III secolo a.C. (Guarducci M., 2005, cit. ) adoperò il segno dell' omicron (O) per notare sia la vocale breve sia la lunga.
8) Iliade, XXIV, vv. 557 -558: ...ἐπεί με πρῶτον ἔασας /αὐτόν τε ζώειν καὶ ὁρᾶν φάος ἡελίοιο (è Priamo che parla rivolgendosi ad Achille: poiché tu primieramente hai permesso/ che io vivessi e potessi vedere la luce del sole).
9)  IW DUSTANOS , Sofocle, Ant. 850; IW MAKARES, Eschilo, Theb. 96; IH IH IW IW DAIMONES. Esch. Pers. 1003; ecc.
10)   Guarducci M., L'epigrafia greca, ecc. cit. p. 387, nota 1.
11)   V. nota precedente.
12)  Si tenga presente  che 'furoni' oggi, in variante dialettale sedilese, è 'furone'. Ma il lapicida è costretto per il crudele lusus letterario (l'uscita in - ius) ad optare per la prima forma forse già da allora  'campidanese'; forma comunque adoperata molto più tardi, in epoca basso medioevale, nella 'koiné' della legislazione  arborense della Carta de Logu (v. nota successiva)     
13)   CdL, 18,  Pro su furoni.

giovedì 5 settembre 2013

Una delle ultime tribù incontattate del mondo, in Brasile, vicino al confine peruviano




Survival International جنبش حامی از ملل بومی


A Survival International sono state affidate nuove immagini che rivelano informazioni sui popoli incontattati mai diffuse prima. Gli Indiani fotografati vivono in Brasile, vicino al confine peruviano.
Le immagini mostrano una comunità prospera e forte con ceste piene di manioca e papaia appena raccolte nei loro orti.
© Gleison Miranda/FUNAI/Survival
Le immagini sono state scattate dal Dipartimento brasiliano agli affari indiani, che ha autorizzato Survival a usarle per arrivare a proteggere il loro territorio. Le immagini mostrano una comunità prospera e forte con ceste piene di manioca e papaia appena raccolte nei loro orti.
La sopravvivenza della tribù è messa in serio pericolo dalla penetrazione massiccia e illegale di taglialegna nel lato peruviano del confine. Le autorità brasiliane ritengono che l’invasione stia spingendo gli Indiani isolati peruviani verso il Brasile, e che i due popoli possano entrare in conflitto.
Da anni Survival e altre Ong chiedono al governo peruviano di intervenire con determinazione ed efficacia per fermare l’invasione, ma è stato fatto ben poco.
L’anno scorso, l’organizzazione americana Upper Amazon Conservancy ha effettuato l’ultimo di una serie di voli di ricognizione sul lato peruviano fornendo ulteriori prove del taglio illegale del legname in corso in un’area protetta.
L’uomo, con il corpo dipinto con l’annatto, è nell’orto della comunità, in mezzo ai banani.
© Gleison Miranda/FUNAI/Survival
“È necessario ribadire che queste tribù esistono” ha dichiarato oggi Marcos Apurinã, coordinatore dell’organizzazione degli Indiani amazzonici brasiliani COIAB, “quindi abbiamo deciso di appoggiare la diffusione di queste immagini che documentano i fatti. I fondamentali diritti umani di questi popoli vengono ignorati, soprattutto quello alla vita. Pertanto, è di vitale importanza proteggerli.”
La decisione è stata commentata anche da Davi Kopenawa Yanomami, famoso leader degli Indiani brasiliani: “Dobbiamo proteggere i luoghi in cui gli Indiani vivono, cacciano, pescano e coltivano. Mostrare le immagini degli Indiani incontattati è utile perché mostrano al mondo intero che sono lì, nelle loro foreste, e che le autorità devono rispettare il loro diritto di vivere nelle loro terre”.
L’organizzazione degli Indiani amazzonici AIDESEP ha diffuso un comunicato in cui si legge: “Siamo profondamente preoccupati per la mancanza di intervento da parte delle autorità… Nonostante le sollecitazioni contro il disboscamento illegale che giungono da fuori e dentro il Perù, non è ancora stato fatto nulla”.
Uomini con il corpo dipinto di tinture vegetali rosse e nere osservano l’aereo dei funzionari del governo brasiliano.
© Gleison Miranda/FUNAI/Survival
“Proteggere le terre in cui vivono i popoli incontattati è importante per tutto il mondo” ha dichiarato il presentatore Bruce Parry, conduttore della celebre serie televisiva Tribe. “In passato non siamo mai riusciti a inserirli nelle nostre società senza infliggere loro traumi terribili. Decidere quando unirsi al nostro mondo spetta a loro, non a noi.”
“I tagliatori illegali della foresta distruggeranno questa tribù” denuncia Stephen Corry, direttore generale di Survival International. “Il governo peruviano deve fermarli prima che sia troppo tardi. Le persone ritratte nelle foto sono evidentemente sane e vigorose. Tutto ciò di cui hanno bisogno da parte nostra è che il loro territorio sia protetto, in modo che possano decidere da sole della loro vita.
Oggi la loro terra è realmente a rischio e se l’invasione dei disboscatori non verrà fermata rapidamente, gli strapperemo il futuro dalle mani. Non è una possibilità: è storia inconfutabile, già scritta e riscritta negli ultimi cinque secoli sulla tomba di un numero incalcolabile di tribù.”


Per concessione di Survival International

venerdì 16 agosto 2013

Gobekli Tepe: Il tempio che non dovrebbe esistere

Gobekli Tepe: Il tempio che non dovrebbe esistere

Gobekli Tepe (trad: collina tondeggiante – ombelico) è un sito archeologico a circa 18 km a nordest dalla città di Şanlıurfa nell’odierna Turchia, presso il confine con la Siria, nel quale è stato rinvenuto il più antico esempio di tempio in pietra, risalente al 9600 a.C. risalente all’inizio del Neolitico, o alla fine del Mesolitico, e che sta sconvolgendo tutte le certezze sulle origini della civiltà.
Il complesso risale a sette millenni prima della Grande Piramide di Giza, ed è il più antico esempio noto di  architettura monumentale. Intorno all’8000 a.C. il sito venne deliberatamente abbandonato e volontariamente seppellito con terra portata dall’uomo.






Gli archeologi continuano a scavare e a discutere sul suo significato. Göbekli Tepe e altri siti mediorientali stanno cambiando le nostre idee su una svolta fondamentale nella storia umana: la rivoluzione neolitica, quando i cacciatori-raccoglitori nomadi si trasformarono in agricoltori stanziali.
Il sito si trova su una collina artificiale alta circa 15 m e con un diametro di circa 300 m, situata sul punto più alto di un’elevazione di forma allungata, che domina la regione circostante, tra la catena del Tauro e il Karaca Dağ e la valle dove si trova la città di Harran. Il sito utilizzato dall’uomo avrebbe avuto un’estensione da 300 a 500 m².
Finora meno di un decimo del sito è stato riportato alla luce, ma basta a dare un’idea del timore reverenziale che il tempio incuteva ai pellegrini che si radunavano qui ben 7.000 anni prima della costruzione di Stonehenge.
Gobekli Tepe fu individuata la prima volta nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense, che notò diversi consistenti cumuli di frammenti di selce, segno di attività umana nell’età della pietra. Il sito fu poi riscoperto trent’anni dopo da un pastore locale, che notò alcune pietre di strana forma che spuntavano dal terreno.
La notizia arrivò al responsabile del museo della città di Şanlıurfa, che contattò il ministero, il quale a sua volta si mise in contatto con la sede di Istanbul dell’Istituto archeologico germanico.
Gli scavi furono iniziati nel 1995 da una missione congiunta del museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico germanico sotto la direzione di Klaus Schmidt, che dall’anno precedente stava lavorando in alcuni siti archeologici della regione. Nel 2006 gli scavi passarono alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.
Gli scavi portarono alla luce un santuario monumentale megalitico, costituito da una collina artificiale delimitata da muri in pietra grezza a secco. Furono inoltre rinvenuti quattro recinti circolari, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti oltre 10 tonnellate ciascuno, probabilmente cavati con l’utilizzo di strumenti in pietra. Secondo il direttore dello scavo le pietre, drizzate in piedi e disposte in circolo, simboleggerebbero assemblee di uomini.
La scoperta più interresante riguarda le circa 40 pietre a forma di T, alte fino a cinque metri e mezzo. I blocchi di calcare, del peso di cinque tonnellate, furono portati qui da una cava vicina anche se le popolazioni dell’epoca non conoscevano la ruota né avevano ancora addomesticato le bestie da soma.
La maggior parte di esse sono incise e vi sono raffigurati diversi tipi di animali (serpenti, anatre, gru, tori, volpi, leoni, cinghiali, vacche, scorpioni, formiche). Alcune incisioni vennero volontariamente cancellate, forse per preparare la pietra a riceverne di nuove. Sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti e motivi geometrici.
Indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza di altre 250 pietre ancora sepolte nel terreno. Un’altra pietra a forma di T, estratta solo a metà dalla cava, è stata rinvenuta a circa 1 km dal sito. Aveva una lunghezza di circa 9 m ed era probabilmente destinata al santuario, ma una rottura costrinse ad abbandonare il lavoro.
Oltre alle pietre sono presenti sculture isolate, in argilla, molto rovinate dal tempo, che rappresentano probabilmente un cinghiale o una volpe. Confronti possono essere fatti con statue del medesimo tipo rinvenute nei siti di Nevalı Çori e di Nahal Hemar.
Gli scultori dovevano svolgere la loro opera direttamente sull’altopiano del santuario, dove sono stati rinvenute anche pietre non terminate e delle cavità a forma di scodella nella roccia argillosa, secondo una tecnica già utilizzata durante l’epipaleolitico per ottenere argilla per le sculture o per il legante argilloso utilizzato nelle murature.
La costellazione di Orione conta circa 130 stelle visibili ed è identificabile dall’allineamento di tre stelle che formano la cintura di Orione. Orione con i suoi due cani da caccia, Cane Maggiore e Cane Minore, combattono contro il Toro (Pleiadi?).


Nella roccia sono anche presenti raffigurazioni di forme falliche, che forse risalgono ad epoche successive, trovando confronti nelle culture sumere e mesopotamiche (siti di Byblos, Nemrik, Helwan e Aswad).
Ad oggi, 45 di queste pietre sono state scavate, ma vi sono indicazioni che c’è molto da scoprire. Indagini geomagnetiche indicano che ci sono centinaia di altre pietre erette, che aspettano solo di essere portate alla luce. Se Gobekli Tepe fosse semplicemente questo, sarebbe già un sito straordinario, una specie di Stonehenge turca.



Diversi fattori unici innalzano però Gobekli Tepe nella stratosfera dell’archeologia e nel regno del fantastico. Il primo è la sua età. La datazione al radiocarbonio mostra che il complesso è di almeno 12.000 anni fa, forse anche 13.000 anni.
Ciò significa che è stata costruita intorno al 10 mila a.C. Gobekli Tepe è quindi il più antico di tali siti nel mondo, con un ampio margine. E’ così antico da precedere la vita sedentaria dell’uomo, prima della ceramica, della scrittura, prima di tutto. Gobekli proviene da una parte della storia umana che è incredibilmente lontana, nel profondo passato dei cacciatori-raccoglitori.
Come poterono gli uomini delle caverne costruire qualcosa di così ambizioso? L’archeologo Klaus Schmidt, pensa che bande di cacciatori si siano riuniti sporadicamente nel sito, durante i decenni di costruzione, vivessero in tende di pelle di animali e uccidessero la selvaggina locale per nutrirsi. Le molte frecce di selce trovate presso Gobekli giocano a sostegno di questa tesi, ma sostengono anche la datazione del sito.
Questa rivelazione, che i cacciatori-raccoglitori dell’Età della Pietra potrebbero avere costruito qualcosa come Gobekli, cambia radicalmente la nostra visione del mondo, perché mostra che la vita degli antichi cacciatori-raccoglitori, in questa regione della Turchia, era di gran lunga più progredita di quanto si sia mai concepito. E’ come se divinità scese dal cielo avessero costruito Gobekli con le loro mani.
La particolare disposizione del complesso di Gobekli Tepe ricorda inoltre la disposizione delle principali stelle delle costellazione delle Pleiadi (conosciute anche come le Sette sorelle, chiamate dagli antichi romani Vergilie) che contano diverse stelle visibili ad occhio nudo nella costellazione del Toro, di cui tanti siti archeologici del mondo sembrano uniti nella medesima volonta’ di omaggiare queste stelle.



Mappa in dettaglio delle Pleiadi, con evidenziate (in verde) le nebulose associate (Wiki).
Pochi anni fa, gli archeologi rinvennero presso Cayonu un mucchio di teschi umani. Essi furono trovati sotto una lastra d’altare, tinta con sangue umano. Nessuno è sicuro, ma questa può essere la prima prova di sacrifici umani: uno dei più inspiegabili comportamenti umani, che potrebbero avere sviluppato solo di fronte ad un terribile stress sociale.
Gli esperti possono discutere sull’evidenza di Cayonu. Ma quello che nessuno nega che è il sacrificio umano abbia avuto luogo in questa regione, tra la Palestina, Israele e Canaan. L’evidenza archeologica indica che le vittime erano uccise in enormi fosse di morte, i bambini erano sepolti vivi in vasi, altri erano bruciati in grandi giare di bronzo.
Questi atti sono quasi incomprensibili, a meno che non si pensi che la gente aveva imparato a temere le divinità, perché era stata scacciata dal paradiso. Così avrebbe cercato di propiziare la collera dei cieli. Questa barbarie potrebbe, infatti, essere la chiave di soluzione di un ultimo, sconcertante mistero. I sorprendenti fregi di pietre di Gobekli Tepe si sono conservati intatti per uno strano motivo.
Molto tempo fa, il sito fu deliberatamente e sistematicamente sepolto con un colossale lavoro insieme a tutte le sue meravigliose sculture di pietra. Intorno al 8000 a.C., i creatori di Gobekli seppellirono la loro realizzazione e il loro glorioso tempio sotto migliaia di tonnellate di terra, creando le colline artificiali sulle quali il pastore curdo camminava nel 1994. Il motivo che spinse gli antichi a seppellire per sempre il tempio di Gobekli Tepe rimane a tutt’oggi un mistero.

venerdì 5 luglio 2013

La Croce di Tammuz

La Croce di Tammuz

di E. L. Henn (1934-1997)
Traduzione di Anticorpi.info

Avanti, soldati cristiani! 
Marciate come in guerra, 
Preceduti dalla croce di Gesù. 

Così recita il ritornello di un popolare inno cristiano cantato nelle chiese per molti anni. La canzone descrive la croce come segno distintivo intorno a cui i cristiani dovrebbero radunarsi nella loro lotta contro le forze del male.

In tutto il mondo la croce è considerata il simbolo della cristianità. Le chiese esibiscono croci in cima ai loro campanili oltre che sulle loro pareti, finestre e porte. Cattolici e protestanti indossano croci su collane, bracciali, anelli, ciondoli, portachiavi e articoli di abbigliamento. La gente compie il "segno della croce" toccandosi la fronte, il petto e poi le spalle per formare una croce simbolica nello svolgimento di alcuni rituali religiosi o nel benedire se stessi o gli altri. Alcuni pensano che il segno della croce sia efficace per allontanare gli spiriti maligni ed in generale per proteggere i credenti dal male.

Tutto ciò suona del tutto normale per la maggior parte delle persone. Dopotutto Gesù fu crocifisso su una croce, non è vero? Non è vero che in ogni epoca i cristiani hanno usato il segno della croce per manifestare al mondo la loro fede nel Salvatore del genere umano? La Bibbia menziona la croce in numerose occasioni, sia in termini letterali che figurati, a testimonianza del significato del vero cristianesimo e dei sacrifici e le prove che ogni vero cristiano deve subire in questa vita. Dunque perché qualcuno sembra trovare qualcosa di sbagliato nel segno della croce? Il segno della croce è realmente un emblema del vero cristianesimo o è qualcosa di diverso?

Croci precristiane.
E' vero che il simbolismo della croce iniziò con il cristianesimo? Notate questo paragrafo della Enciclopedia Britannica :
Dalla sua semplicità della forma, la croce è stata utilizzata sia come simbolo religioso che come ornamento, dagli albori della civiltà dell'uomo. In quasi ogni parte del Vecchio Mondo sono stati rinvenutioggetti contraddistinti dal simbolo della croce, risalenti a periodi molto anteriori all'era cristiana. India, Siria, Persia. L'uso della croce come simbolo religioso in epoca pre-cristiana, e tra i popoli non cristiani può probabilmente essere considerato quasi universale e in moltissimi casi era collegato con qualche forma di culto della natura.
Enciclopedia Britannica, 11° ed., 1910, vol. 7, pag. 506.
Chiaramente, quindi, già molto prima della venuta di Cristo i pagani utilizzavano la croce come simbolo religioso. Il mondo antico produsse molte variazioni del simbolo della croce.

"Le croci pre-cristiane più riscontrabili sono la croceTau, il cui nome deriva dalla somiglianza la lettera maiuscola greca Tau, e la svastica fylfot, chiamata anche 'Gammadion' per via della somiglianza alla unione di quattro lettere Gamma maiuscole greche. La croce Tau era comune nel simbolismo egiziano, ed è infatti spesso definita anche Croce Egizia"
Ibid.
"L'antico geroglifico egizio della vita, lo ankh, croce tau sormontata da un anello, conosciuta come crux ansata, fu diffusamente utilizzato sui monumenti cristiani copti."
Nuova Enciclopedia Britannica, 15 ° ed., 1995, vol. 3, p. 753
La croce Tau era originariamente un simbolo egizio pagano e successivamente fu adottato da un gruppo di cristiani definiti: copti, stanziati in Egitto. (Un copto è un membro della tradizionale Chiesa cristiana monofisita, di origine egiziana. Il Monofisismo è una variazione dello gnosticismo secondo cui Cristo era del tutto divino e non umano, sebbene si sia manifestato mediante un corpo umano.

Il Dio Tammuz e la Croce.
Da dove provenne la croce Tau? Nel libro di Ezechiele, Dio rivela al profeta alcuni peccati della nazione di Israele. Uno di essi era dovuto alla adorazione di un dio pagano di nome Tammuz.
"Egli mi condusse fino alla porta settentrionale dell'ala settentrionale della casa del SIGNORE, e vidi con mio grande sgomento che le donne sedute lì piangevano per Tammuz"
Ezechiele 08:14 
Chi era Tammuz e perché alcune donne avrebbero dovuto piangerlo? La Nuova Enciclopedia Britannica scrive che "Tammuz nella religione mesopotamica era il dio della fertilità, che incarna i poteri per la nuova vita nella natura in primavera" Vol. 11, pag. 532.

Questa divinità della natura fu associata a due feste annuali, una celebrata nel tardo inverno e l'altra in primavera.
"Il culto di Tammuz si incentrava su due feste annuali, la prima in cui si celebrava il suo matrimonio con la dea Inanna, ed il secondo in cui si piangeva la sua morte per mano dei demoni degli inferi. Durante la terza dinastia di Ur (2112 - 2.004 aC), nella città di Umma (moderna Dillo Jokha), il matrimonio del dio era celebrato nei mesi di febbraio e marzo, nel Festival di Tammuz. Le funzioni celebrate nei mesi di marzo-aprile glorificavano la morte del dio ed erano eseguite in modo teatrale. Molti dei lamenti per l'occasione avevano come scenario una processione nel deserto per manifestare il dolore per il dio ucciso.
Ibid.
Cosa ha a che fare con tutto ciò il simbolo della croce? Secondo quanto affermato dello storico Alexander Hislop, il culto di Tammuz era intimamente connesso ai culti misterici babilonesi di Nimrod, Semiramide e del loro figlio illegittimo: Horus. Il simbolo della lettera T babilonese era †, identico alle croci cristiane. Ed era il simbolo del dio Tammuz. Riferendosi a questo simbolo, Hislop scrive:
"Il Tau mistico era segnato sulla fronte degli iniziati ai Misteri. (...) Le vestali della Roma pagana indossavano abiti simili a quelli delle suore attuali (...) Quasi non esiste tribù pagana in cui non sia stato rinvenuto il simbolo della croce, il quale è la Tau, "†", il segno della croce, il segno indiscutibile di Tammuz, il falso Messia, ovunque sostituito in sua vece."
Le Due Babilonie, 1959, p. 198-199, 204-205
Adottato dai cristiani.
La storiografia dunque conferma che i cristiani adottarono questo simbolo come segno della loro religione, sebbene esso rappresentasse altri culti più antichi.
"La morte di Cristo in croce conferì un nuovo significato al simbolo della croce, fino a quel momento associato ad una concezione della religione non solo non cristiana, ma nella sua essenza spesso del tutto opposta al cristianesimo. I primi cristiani erano soliti ricorrere ad allusioni e segni segreti per proclamare la loro fede, e potrebbero avere riconosciuto l'uso della croce, per esempio la croce Tau e la svastica o fylfot, come segno di riconoscimento speciale che al contempo non suscitasse malumori o sentimenti di disprezzo nei loro concittadini."
Enciclopedia Britannica , 11 ° ed., 1910, vol. 7, pag. 506.
Ma in che epoca il cristianesimo iniziò ad usare il simbolo della croce come proprio segno distintivo? Gli apostoli lo utilizzavano?

Ebbene, le prove storiche dimostrano che il simbolo della croce non fosse utilizzato prima dell'epoca di Costantino, in cui divenne il simbolo riconosciuto della cristianità. Il riconoscimento pubblico attribuitole da Costantino fu senza dubbio influenzato dalla visione avuta dall'imperatore, in cui gli apparve una croce in cielo accompagnata dalle parole en toutw Nika [da questa conquista], nonché dalla storia della scoperta della vera croce dalla madre St . Helena, nel 326. Ibid.
Come abbiamo visto, un enorme corpo di prove dimostra che la croce non è un simbolo originale cristiano, ma affonda le sue radici nel paganesimo. Alcuni sostengono, tuttavia, che il segno della croce sia comunque utilizzabile perché 1) rappresenta il modo in cui Gesù Cristo morì, e 2) attualmente non rappresenta alcuna divinità pagana. Tuttavia, il suo uso come simbolo cristiano è un prodotto sincretistico, qualcosa che il Dio ebraico e cristiano condanna fermamente.

Sintesi di un articolo in lingua inglese, pubblicato su Forerunner (luglio 1996) di Earl L. Henn (1934-1997)

Pubblicazione Web sul sito Church of the Great God
Lin diretto:
http://www.cgg.org/index.cfm/fuseaction/Library.sr/CT/ARTB/k/471/Cross-Christian-Banner-Pagan-Relic.htm

Traduzione a cura di Anticorpi.info

lunedì 1 luglio 2013

Macchina del tempo: Buchi Neri, si è scoperta l'entrata!!!

Macchina del tempo: Buchi Neri, si è scoperta l'entrata!!!

 di Massimo Corbucci

 Esistono davvero! Da anni la fisica insegue la loro esistenza. Il grande fisico Paul Davies ha lanciato un’idea per costruire al “macchina del tempo”. Pero’ c’erano dei “problemi”….il piu’ grande era trovare da “dove” si entra per accedere in queste “gallerie”; incredibile ma vero, si e’ scoperta l’entrata!

 Dal film alla realtà 

 II romanzo “Contact” di Carl Sagan, reso celebre dall'omonimo film - che mostra un fantascientifico viaggio - offre un ottimo spunto di riflessione.
La realizzazione della "macchina del tempo" di Paul Davies è il sogno più fantastico degli umani. Entrare in una macchina, accendere i "motori" e agire sui comandi di bordo, per ritrovarsi istanta­neamente su un lontanissimo sistema solare o su un'altra galassia, per ora è stato solo un affascinante argomento di fantascienza e niente più.

Quali sarebbero le implicazioni di ordine antropologico, sociale e politico, se una cosa del genere fosse possibile? Semplicemente inimmaginabili. Non posso sapere se il progetto di Davies è ancora nel limbo delle cose immaginarie e lontane dalla effettiva realizzazione, per motivi politici o concretamente tecnici. Mi pare però di capire che il fatto che manchi totalmente la nozione del dove si entra, per accedere nei cunicoli spazio-temporali, rappresenti un bel problema di fattibilità immediata.

 Nel presente articolo il lettore potrà prendere atto di come questo aspetto, ora, sia completamente risolto. L’astrofisico americano Carl Sagan ha immaginato una storia, dove viene costruito uno speciale veicolo sferico, nel quale poi entra una donna "tempo-nauta", interpretata nella versione cinematografica, da Jodie Foster.

Lo scenario tecnico è quello da rampa di lancio spaziale e tutti quelli che partecipano al lancio nelle sale di comando non hanno la minima idea di come "partirà" l'astronave. Però tutti ritengono ovvio che verrà eiettata verso il ciclo a velocità pazzesca, sebbene il concetto di cunicolo spazio-temporale da qualcuno venga nominato.

Il veicolo sferico è appeso ad un traliccio dove ruotano inclinati su piani diversi un insieme di strutture a cerchio. Sempre nel film al centro della struttura si forma una luce accecante e in quel momento di massimo folgore l'astronave, tenuta sospesa sopra, si stacca e vi precipita dentro.

 A questo punto quello che vede accadere Jodie Poster e quello che vedono gli osservatori esterni è totalmente diverso. La donna scienziato fa un viaggio "scorrendo" velocissima dentro qualcosa che le appare come una sorta di tunnel strettissimo, viaggio non esente da scossoni e da tremende sollecitazioni al limite estremo della sopportabilità umana, poi si ritrova dolcemente come te le trasportata sulla superficie di un pianeta, dove le cose si "vedono" in tal modo, che sembra di trovarsi in un luogo dove la luce è fortemente "incurvata" e sottoposta a strani fenomeni di rifrazione. Infine la tempo-nauta si ritrova con la faccia sul pavimento del veicolo.

Gli osservatori esterni hanno solo visto la grossa palla metallica staccarsi e cadere in mare. Pertanto ritengono che il lancio nello spazio sia fallito e sono alquanto perplessi nel sentire ciò che racconta di aver visto la donna, che come esperienza si colloca in decine di ore di vissuto. Il film finisce, non certo lasciando lo spettatore nel dubbio che tale viaggio non sia stato reale, ma facendo sentire fortemente l'inadeguatezza di ciò che è stato mostrato nel tentativo di far comprendere come si possa andare tanto lontani nelle profondità dello spazio, senza percorrere lo spazio che vi è interposto. 

II Vuoto Quanto-meccanico 

 Comprendere come un corpo fisico possa improvvisamente "implodere" e scomparire, per "riemergere" da qualche altra parte, allo stato attuale delle nozioni scientifiche note, non è affatto intuitivo. La nozione nuova è rappresentata dal concetto di vuoto quanto-meccanico e siccome, come disse Erwin Scrhódinger, “chiunque non riesca a raccontare a tutti quello che ha scoperto o fatto ha compiuto un'opera inutile", mi sto sforzando dopo il 2000, di rendere molto chiaro e semplice, anche per un bambino, che cosa intendo con il termine vuoto quanto-meccanico.

Ora che debbo far capire come il film Contact riveduto e corretto, non è più pura fantascienza ma racconta il futuro della fisica, ho un'altra buona occasione per farlo. Come fa il "veicolo" sferico a cadere "semplicemente" in un bagliore di luce, percorrendo pochi metri e a ritrovarsi ad anni-luce di distanza? Ricorro al mio "cavallo di battaglia", che è l'auf-bau atomico fatto come un vero 

Palazzo medievale

 Immaginate un cavaliere del 1200 rincorso da un'orda di scalmanati predatori in una notte di tregenda.

 Proprio mentre gli stanno per afferrare il bavero della cotta, riesce a guadagnare l'entrata del Palazzo del suo signorotto protettore e in men che non si dica è dall'altra parte della città, a molti chilometri, senza che nessuno lo abbia visto passare negli "scantinati" (nel nucleo) qui viene il bello: gli scantinati non sono tanti quanti gli appartamenti, vale a dire 112, bensì 103. In altre parole 9 scantinati sono quelli "requisiti" dal Creatore per "scavare" un tunnel, che comunica con TUTTA la rete di tunnel cosmica.

È accedendo a quel tunnel, che si può arrivare in qualunque posto lontano o vicino dell'universo. 

 Come ha Fatto? 

 È risaputo che nei Palazzi di un certo lignaggio si spendeva grosse cifre per far fare i cosiddetti sotterranei, che mettevano in comunicazione con altri Palazzi o con altri luoghi, dove c'era interesse ad arrivare, senza essere visti dagli osservatori esterni. Ponendo che l’auf-bau atomico si ispiri ad un vero Palazzo, l'atomo Corbucci ha la scala A con 50 appartamenti e la scala B con 62 appartamenti (per un totale di 112, come spesso reiterato in più occasioni!). Quattro appartamenti sono abitali dal "progettista" del palazzo, nella compagine di 116 (vedi la figura dove tutti gli elettroni di un atomo, sono messi nel giusto ordine, dal nome: ordine di riempimento dei livelli atomici*). 

 Quando si scende negli "scantinati" (nel nucleo) viene il bello: gli scantinati non sono tanti quanti gli appartamenti, vale a dire 112, bensì 103. In altre parole 9 scantinati sono quelli "requisiti" dal Creatore per "scavare" un tunnel, che comunica con tutta la rete di tunnel cosmica. È accedendo a quel tunnel, che si può arrivare in qualunque posto lontano o vicino dell'universo. La gravità già "viaggia" lì, per portare "lontani" i suoi effetti tra "masse" (n. 9 della rivista Scienza e Conoscenza). 

Se all'interno può viaggiare la gravità, allora può entrarci an­che un veicolo, come quello del Film Contact. Ecco spiegato molto chiaramente il funzionamento di un wormhole ( buco nero). 

Quantomeno è chiaro da dove si entra. Per arrivare a capire anche come si entra, è necessario ancora un piccolo sforzo. Non vi pare? 


 Werner Heisemberg disse: «La descrizione in un linguaggio semplice, costituisce un criterio per il grado di comprensibilità che è stato raggiunto». 

Questo e il metro di misura che ho usato per descrivere a me stesso che cosa sia un buco nero. Vedrete che un wormhole e un buco nero sono la stessa cosa. Il vantaggio che ho avuto rispetto a Stephen Hawking, al quale chiedo venia per l'intrusione in un campo a lui riservato, è che ho trovato all'interno del nucleo atomico, l'area nera tra i 46 barioni a spin 1/2 e i 57 a spin 3/2 e mi sono reso conto che è il "pozzo senza fondo" mattonato di rishoni vavohu e tohu, che sono all'origine del cosmo. Pertanto sono potuto arrivare ad una visione dell'atomo "senza veli", l'atomo è un "baratro" rivestito di elettroni e di protoni! E basta niente perché rimanga solo il baratro! Basta che per gravità si avvii il processo di neutronizzazione. Vale a dire, gli elettroni si spiaccichino sul nucleo, rendendo il protone "neutro". La fase successiva di "non ritorno" l'ho chiamata "quarkizzazione" (se il termine passa, sarò il primo ad averlo usato, per fortuna le stelle di quark sono state trovate sul serio!

 Quelle di neutroni erano note a tutti). I quark che si avvicinano tanto tra loro, fino a spiaccicarsi l'uno contro l'altro, come avevano già fatto elettrone e protone, sapete perché determinano la fine della materia e il "trionfo" del baratro? Semplice: la forza di "colore", che tiene i quark, e caratterizzata dal fatto che "tira" come un polente autotreno, se i quark tendono ad allontanarsi, mentre si azzererebbe, via-via che si avvicinano. Il campo di colore a zero, significa che rimane il niente. Attenzione però a questa parola! Mi sono già imbattuto nella pericolosità epistemologica di questo termine che ha mietuto vittime, ignare di etimologia. 

Il termine "niente" deriva da nec ens = che non è ente. 

Ente = Dio. Perciò, quello che rimane della materia quando sì è neutronizzata e quarkizzata, non è affatto nulla, ma un quid che non e' Dio, piuttosto il luogo dove risiede! La sorpresa di un luogo così, per i fisici, è che attrae al suo interno la materia, come il gorgo di un lavandino attrae l'acqua. 

Di concettualmente nuovo c'è da capire che da li la materia viene risucchiata, ma anche partorita! A parte questa funzione duale, fondamentale è trarne la nozione che il risucchio della materia è un viaggio a sola andata verso un altro universo, parallelo al nostro, ma senza la minima speranza di rapporti col nostro, una volta avvenuto il "tuffo" nel gorgo vorticoso. 

Questo punto ha rappresentalo per anni una controversia tra Hawking e Thorne; Peccato che ci siano voluti anni per sancire la vera natura affatto nera, dei buchi neri! Ora che questo punto è chiarito, potrebbero essere maturi i tempi per l'inizio dell'era dei viaggi nei wormholes. Vi parlerò della scoperta eccezionale, che li renderà possibili! 


 Siamo già nel 2004, ma nel 2002 è stata fatta una scoperta straordinaria: l'osservatorio a raggi X Chandra ha sentito il suono di un buco nero. Vi confesso che non avevo la minima idea di come entrare dentro quel nero sub-nucleare, che ho scoperto nel nucleo atomico, di cui avevo tuttavia compreso la funzione. 

Né avrei potuto mai scrivere questo articolo, se la scoperta non fosse stata fatta. Che cosa è stato scoperto di tanto importante da Andrew Habian all'Istituto di Astronomia di Cambridge? Dall'osservatorio orbitante della NASA, che ha il nome Chandra e "vede" nella "finestra" dei raggi x, è stato puntato l'obiettivo su un ammasso di galassie del Perseo, distante da noi 250 milioni di anni luce. Al centro si trova la galassia ngc 1275 e nel suo nucleo si annida un buco nero. Si è scoperto che tutto il gas intergalattico (idrogeno!) che permea l'ammasso è increspato! (vedi increspature nella foto).

 La foto e un documento scientifico semplicemente incantevole: onde sonore (!) sono state rilevate dal telescopio Chandra della NASA.. Prodotte dal Buco Nero iper-massiccio situato al centro della galassia del Perseo ngc 1275 , appaiono "visivamente" come increspature nel gas caldissimo che riempie l'ammasso. Un'immagine cosi rimarrà nella storia della fisica e nell' inconscio collettivo. 

La Bibbia aveva ragione: all'inizio davvero fu il suono! Per farla breve, sapete a cosa sono dovute le increspature, che si estendono per centinaia di migliaia di anni luce? Sono dovute ad un suono, di potenza pazzesca, che proviene proprio dal buco nero. frequenza del suono? R) La nota musicale do, con "armoniche" in 57 ottave. Ricorderete che nel primo capitolo della Bibbia, la Genesi, si legge: «All'inizio era il cielo (Vavohu) e la terra (Tohu) e il suono». 

Voi non ci crederete, ma dopo l'acquisizione di quella nozione, ora so come entrare in un buco nero o in un wormhole. È d'obbligo ricordare che Nathan Penrose insieme ad Albert Einstein, furono, in assoluto, i primi scienziati ad elaborare un'ipotesi teorica sui canali spazio-tempo (1935). 

Vediamo che cosa erano e che cosa sono tuttora e concettualmente questi canali: pratica­mente sono "scorciatoie" che conducono da un punto A ad un punto B; in modo "nascosto'" all'evidenza della continuità spazio-temporale (la fig 1 rappresenta il paradigma concettuale). 

Abbiamo un piano nello spazio dove s'immagina che sprofondi lo spazio nei 2 punti rispettivamente A e B e che una "gola di verme" metta in comunicazione le 2 imboccature sprofondate in A e in B. La lunghezza di tale cunicolo invero è maggiore della distanza diretta visibile esternamente ad occhio nudo tra A e B, pertanto definirlo una "scorciatoia'' non viene naturale. 

La fig. 2 è maggiormente espressiva del paradigma "scorciatoia" , che vogliamo illustrare: i due punti A e B vengono a trovarsi sovrapposti, per effetto della curvatura spaziale, determinata dalla gravità. Pertanto si capisce che per andare da A a B percorrendo la distanza interposta bisogna fare tutto il giro, mentre arrivare da A a B introducendosi nella "gola di verme", che si trova rispettivamente nei punti dove "sprofonda" A e sprofonda B, è fare un tragitto abbreviato, molto privilegiato, da potersi definire giustamente scorciatoia. 

Nel 1935 Einstein e Penrose pensarono proprio a quell'immagine (vedi anche fig. 3) e molti fisici si dettero da fare per inventare il tunnel di connessione. Scavare un tunnel sotto una montagna è un'impresa mollo ardua, ma con buona volontà è con trivelle mostruosamente potenti, è cosa fattibile. 

Fig. 3: Tavola barionica e funzionamento del wormhole 

 Per la prima volta al mondo è illustralo il funzionamento del wormhole: l'azione è quella di un cunicolo, che collega due punti lontani dello spazio per la "scorciatoia'' tra questi stessi punti, dove si trova l'imboccatura di entrata e quella di uscita. Prima del modello atomico Corbucci, sembrava che ci volesse un dilatatore di Casimir per creare un buco, utile ad accedere all'imboccatura dell'entrata; L’evidenza che la simmetria del nucleo è rotta tra 46 barioni a spin 1/2 e 57 a spin 3/2 da un nero, fa comprendere che lutti gli atomi del creato hanno già nel loro nucleo la "porta" comunicante, una vera rivoluzione "copernicana", che rende possibili i viaggi a distanze enormi a tempo zero, come nel celebre film Contact, interpretato da Jodie Foster. 

 Come si debba "scavare" un tunnel spazio-temporale nessuno ancora lo ha capito. 

 Dove va applicata la trivella? 
 Nel 1958 al fisico Casimir sembrò di aver trovalo la soluzione. Scoprì un effetto, che porta il suo nome, consistente nel fatto che 2 piastre di un condensatore poste l'una contro l'altra e messe sotto altissima tensione, finiscono per respingersi, come se si creasse una forza dal "vuoto". Star "Gate" sarà una realtà entro il 2010 Ovviamente se la comunità scientifica non si lascerà scappare questa occasione! (Ovvero di mettere insieme i fisici, che separatamente non possono arrivare a tanto, senza badare a blasoni, titoli accademici e convenevoli vari, ma badando alla "sostanza"). Che siano crollate le due "torri" di Galileo e di Newton, ormai non può essere più nascosto. La fisica moderna attende di incorporare nuovi modelli: uno è l'atomo con auf-bau leptonico a 112 e auf-bau barionico a 103. L'altro è il modello standard senza più la forza di gravità, i gravitoni e i neutrini tauonici e manco a dirlo, senza il bosone di Higgs. 

L'unificazione delle forze (quella che diminuisce con la distanza e quella che aumenta con la distanza) è belle fatta! Comincerà una visione del mondo non più atea, foriera di pace tra i popoli e di ricerca del benessere spirituale, non più del benessere (!?) economico. Il modo di "cacciarsi-den-tro" quel nero sub-nucleare, una volta capito che l'atomo è un baratro, "rivestito", si trova. Basta togliere via il "vestito" (un fortissimo suono nelle ottave del do servirà a "spogliare" gli atomi, con una semplicità sorprendente). Tuttavia è importante capire cosa accadrà una volta "dentro" il nero; ci si ritroverà in ogni luogo contemporaneamente. 
Emergere su Marte, anziché su un astro di una galassia lontanissima o semplicemente in una piazza di Parigi, dipenderà da un effetto che si chiama volontà, occorrerà imparare questo "concetto", prendendo spunto dallo stesso fenomeno per cui noi siamo qui e non altrove, che si chiama volontà di Dio. Quando sarà chiaro a tutti come è possibile l'esistenza, grazie alla volontà di Dio, quel giorno si potrà andare davvero ... oltre la fisica. 

 By Massimo Corbucci 2004 Tratto da: Scienza & Conoscenza