giovedì 10 aprile 2014

Le Piramidi di Xian in Cina

Le Piramidi di Xian in Cina
Piramidixiancina1.1
Sabrina Stoppa
 Nel 1945, alla fine della Secondo Guerra Mondiale, il pilota James Gaussman, mentre si dirigeva verso la base di Assam in India avvistò quella che oggi viene definita la “Piramide Bianca” e la fotografò. Oggi è considerata la più grande piramide al mondo.

Nel suo rapporto, Gaussman descriveva la piramide come fosse un oggetto avente la superficie di un metallo di colore molto chiaro, con la punta simile a gioielli (probabilmente cristallo), e sottolineò che, intorno ad essa non c’era assolutamente nulla. La foto di Gaussman e il suo rapporto, rimasero seppelliti per 40 anni negli archivi militari dell’epoca fino a quando, Bruce Cathie, ufologo Neozelandese nel 1983, la pubblicò nel suo libro “The Bridge to Infinity” cercando di dimostrare come, secondo il suo punto di vista, la terra fosse una colonia di conquistatori venuti dallo spazio.

Anche Brian Crowley pubblicò 40 anni dopo, la foto scattata da Gaussman nel suo libro “The face on Mars” (La faccia di Marte).

Ma la vera storia delle piramidi cinesi ha però inizio nel 1947 quando il Colonnello Maurice Sheehan, le fotografò mentre con un DC3 sorvolava la Cina e nel marzo dello stesso anno la sua descrizione fu pubblicata sul New York Times (28 marzo 1947). Ma il governo Cinese smentì categoricamente la scoperta di Sheehan.

 
Piramidixiancina1.2Poco tempo dopo apparve sulla rivista Scienze News-Letter (diventato poi Scienze News), un articolo che parlava proprio delle piramidi di quella zona della Cina, definendole come dei tumuli fatti di argilla e di fango (The Scienze News-Letter, Vol. 51, N° 15 – 12 Aprile 1947 pag. 232 e 233).

 
Ma Pechino ha sempre smentito l’esistenza di piramidi sul suo territorio.


Oggi sappiamo però che quelle piramidi e in particolare la piramide bianca, in quella zona esistono veramente.

Nel 1994, l’esploratore tedesco Harwing Hausdorf, riuscì ad ottenere i permessi per visitare alcune zone proibite tra la città di Xian e il suo aereoporto e scalando una di queste piramidi ne vide almeno un’altra ventina tra cui quelle già viste da Meyer Schroder e Oscar Maman (Nel 1912, furono i primi due ad imbattersi nelle piramidi della zona mentre la attraversavano. Erano due commercianti d’armi).Scattò alcune fotografie che, una volta sviluppate, mostrarono inequivocabilmente la presenza di numerose piramidi nella zona, piramidi che sembravano anche trovarsi alla stessa latitudine di quelle di Giza in Egitto.

In particolare tre di esse sembrano perfettamente allineate, come quelle egiziane, con la stella di Orione.

Hausdorf sostenne che, nella zona intorno a Xian si trovavano almeno 100 di piramidi, per la maggior parte ricoperte di alberi, che sembrerebbe fossero stati piantati già all’epoca della loro costruzione per fare in modo che rimanessero celate.
Piramidixiancina1.3La maggior parte delle piramidi in Cina sembra concentrarsi nel raggio di km. 100 dalla città di Xian nelle pianure di Qin Chuan, nella provincia dello Shanxi nella Cina Centrale.

Oltretutto, in questa zona è situato un centro spaziale Cinese, il Taiyuan Satellite Launch Center (TSLC) e quindi non è completamente aperta al pubblico.



Oggi comunque, la maggior parte di queste piramidi sono visitabili e la conferma ci arriva da Chris Maier, uno dei massimi esperti di piramidi cinesi che ci sottolinea come il turismo nella zona, sia decollato grazie anche alla scoperta nel 1974 dell’Armata di terracotta, 8000 soldati di terracotta a grandezza naturale a guardia della piramide di Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina detto anche imperatore Giallo.

Sempre secondo Hausdorf, alcuni racconti antichi, narrano che, all’epoca delle piramidi, in quella zona vi avevano regnato imperatori che non erano del nostro pianeta, scesi dal cielo su draghi metallici volanti; inoltre, all’interno di alcune di queste piramidi sono state ritrovate ossa di teschi enormi e corpicini piccoli che nulla hanno a che fare con l’aspetto umano. Tali resti erano circondati da dischi metallici scritti con strani geroglifici che tradotti, avrebbero rivelato appunto che un UFO cadde in quella zona circa 12.000 anni fa.


lunedì 10 febbraio 2014

LE ORIGINI DEGLI ESSERI UMANI SECONDO GLI ANTICHI TESTI SUMERI!!


Sumer, o la ‘terra dei re civilizzati’, fiorì in Mesopotamia, l’Iraq di oggi, intorno al 4500 aC. I Sumeri hanno creato una civiltà avanzata con il proprio sistema di linguaggio elaborato, di scrittura, architettura, arte, astronomia e matematica. Il loro sistema religioso era composto da centinaia di divinità, riti e cosmologia. Secondo gli antichi testi, ogni città sumera era sorvegliata da un proprio dio, dove umani e dei vivevano insieme ma gli umani erano i servi degli dei.
Il mito della creazione sumera può essere trovata su una tavoletta di Nippur, antica città mesopotamica fondata nel 5000 aC circa. Secondo le tavolette, la creazione della Terra (Enuma Elish) comincia così:
Quando l’alto dei cieli non era ancora stato nominato;
E la terra situata sotto, ancora non sopportava un nome;
E il primordiale Apsu, che li generò,
E il caos, Tiamut, fu la madre di entrambi
Le loro acque erano mescolate insieme,
E nessun campo si era formata, nessuna palude si vedeva;
Quando degli dei, nessuno era stato chiamato in essere,
E nessuno portava un nome, e nessun destino era stato ordinato;
Poi sono stati creati gli dei in mezzo al cielo,
Lahmu e Lahamu sono stati chiamati in essere … E’ interessante notare che nessun dio è stato il responsabile della creazione, in quanto, anche gli stessi dei sono, essi stessi, parte della creazione. La mitologia sumera sostiene che, in principio, esseri di tipo umanoide e di origine extra-terrestre, hanno governato sulla Terra. Quegli esseri, o divinità, potevano viaggiare attraverso il cielo in veicoli a forma di disco o razzo. Questi esseri hanno lavorato il suolo della Terra per renderlo abitabile ed, inoltre, per sfruttare i minerali presenti al suo interno.
I testi riferiscono che, ad un certo punto, c’è stato l’ammutinamento degli dei verso il loro lavoro da ‘minatori’: Quando gli dèi come gli uomini
Portava il lavoro e subito il pedaggio
La fatica degli dèi era fantastica,
Il lavoro era pesante, l’angoscia era molta.
target="_blank">Anu , il dio degli dei, ha convenuto che il loro lavoro era troppo pesante. Suo figlio Enki o Ea, ha proposto di creare l’uomo per sopportare il lavoro e, così, con l’aiuto della sua sorellastra Ninki, lo ha fatto. Un dio è stato messo a morte e il suo corpo e il sangue sono stato mescolato con l’argilla. Da questo materiale è stato creato il primo essere umano a somiglianza degli dei. È stato macellato un dio insieme
Con la sua personalità
Ho rimosso il tuo lavoro pesante
Ho imposto la tua fatica sull’uomo.

Nell’argilla il dio e l’uomo
Sono tenuti,
Per unirli insieme;
Così che alla fine dei giorni
La Carne e l’Anima
Che in un dio sono maturati -
Quell’anima in una parentela vincolata di sangue. 

È interessante notare che lo spirito è collegato al corpo, come viene descritto in molte altre religioni e miti.
Questo primo uomo è stato creato nell’Eden, una parola sumera che significa ‘terreno pianeggiante’. Nell’Epopea di Gilgamesh, l’Eden è menzionato come il giardino degli dei e si trova da qualche parte in Mesopotamia tra i fiumi Tigri ed Eufrate. Inizialmente gli esseri umani erano in grado di riprodursi in proprio, ma sono stati successivamente modificati con l’aiuto di Enki e Ninki. Così Adapa viene creato come un essere umano completamente funzionale e indipendente. Questa ‘modifica’ è stata fatta senza l’approvazione del fratello di Enki, Enlil, e così iniziò un conflitto tra gli dei. Enlil diventa l’avversario dell’uomo e le tavolette sumere affermano che gli uomini servivano gli dei tra molte difficoltà e sofferenze. Anche se non è la storia esatta della creazione che coinvolge due alberi nell’Eden, Adapa, con l’aiuto di Enki, ascende verso Anu (il dio/capo supremo degli Anunnaki), dove non riesce (o si rifiuta, sotto consiglio di Enki) di rispondere ad una domanda circa ‘il pane e l’acqua della vita’. Le opinioni variano sulle somiglianze tra questi due racconti della creazione, ma una cosa rimane chiara: l’immortalità è pensata per gli dei, non per gli uomini. 
BY John Black

venerdì 31 gennaio 2014

La battaglia per l'acqua nel futuro dell'umanità

acqua

 Il deficit di acqua dolce può causare conflitti armati, affermano gli scienziati. Oggi circa 700 milioni di persone in 43 paesi soffrono per la carenza dell'acqua. Entro il 2015 a causa del cambiamento globale del clima e crescita della popolazione sul pianeta questa cifra supererà tre miliardi. 

 Secondo il parere degli esperti, la principale minaccia di futuri conflitti è la distribuzione delle risorse idriche in modo disuguale. Dunque il fabbisogno minimo del consumo d'acqua per una persona al giorno è di 20 litri. Circa un miliardo di persone sulla Terra però possono utilizzare soltanto 5 litri al giorno. Il deficit più acuto d'acqua si sente in Medio Oriente, in Cina, India, nell'Asia Centrale, nei paesi dell'Africa Centrale e Orientale.

Per il continente africano l'accesso all'acqua dolce è un problema di sicurezza dello stato, ritiene Marina Sapronova, professore della cattedra degli studi orientali dell’Università Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali (MGIMO). Perciò la decisione dell'Etiopia di costruire la diga sul Nilo Blu ha suscitato un forte malcontento da parte dell'Egitto. Nello stesso tempo l'Etiopia sta costruendo nel corso superiore del Nilo una potente centrale elettrica che potrà fornire l'energia anche agli stati confinanti. 

L'Egitto teme che dopo la costruzione della diga sarà privato di un quarto delle proprie risorse idriche, fa notare la donna:
Per l'Egitto il problema sta nel fatto che praticamente il 98 percento della popolazione vive nella valle del Nilo. Rispettivamente non è soltanto la questione di approvvigionamento di generi alimentari, ma anche di produzione industriale, della sicurezza nazionale. Storicamente questo stato è nato nella valle del Nilo e tutta la sua storia è legata alle sue acque. Il problema principale è che oltre all'Egitto ci sono altri 10 stati dell'Africa Centrale e Orientale a sfruttare il Nilo. E inoltre sono grandi stati come il Sudan, l'Etiopia, Kenya, Ruanda, Uganda, Tanzania. La popolazione complessiva di questi stati fa oltre 300 milioni di persone. Nell'ultimo decennio il Sudan e l'Etiopia hanno iniziato a svilupparsi anche sul piano economico - cresce la produzione industriale. Tutto ciò richiede l'aumento del consumo dell'acqua del Nilo e l'aumento della produzione dell'energia elettrica per aumentare la potenza industriale .

Nell'Asia Centrale già da qualche anno è in corso la disputa tra Uzbekistan e Tajikistan a causa del fiume Vahsh, un affluente dell'Amu Darya. Dushanbe sta costruendo su Vahsh la centrale elettrica di Rogun. Tashkent è decisamente contraria, temendo la riduzione dello scolo di Amu Darya, ciò che arrecherebbe un colossale danno all'agricoltura. 

I reciproci contrasti sono arrivati al punto tale da non poter praticamente più risolverli senza intervento internazionale, ritiene Andrei Grozin, responsabile della sezione dell'Asia Centrale e del Kazakistan dell'Istituto dei paesi della CSI:
Purtroppo i rapporti tra Dushanbe e Tashkent non sono tra i migliori. Inoltre questa situazione si osserva già da molti anni. Il problema sta che all'epoca dell'Unione Sovietica i rapporti tra gli stati dell'Asia Centrale con l'abbondanza dell'acqua e con il deficit dell'acqua sono stati regolati da Mosca ed esisteva una certa armonia che permetteva agli stati situati nell'alto corso fluviale di costruire centrali elettriche e agli stati situati nel basso corso fluviale di on temere il deficit dell'acqua.

Secondo i pronostici degli scienziati, tra 50 anni le riserve dell'acqua potabile diminuiranno di un terzo, se non addirittura si dimezzeranno. Non sono soltanto le conseguenze del riscaldamento climatico globale sulla Terra, ma anche non razionale, e a volte barbarica, utilizzazione dell'acqua. Se l'atteggiamento dell'umanità verso questo problema non cambierà, allora non si riuscirà senz'altro a evitare conflitti armati a causa dell'acqua.

venerdì 18 ottobre 2013

Lampedusa: perseguitare i vivi, premiare i morti


Lampedusa: perseguitare i vivi, premiare i morti

Santiago Alba Rico Σαντιάγκο Άλμπα Ρίκο سانتياغو البا ريكو 
Tradotto da  Francesco Giannatiempo



Parlando della tragedia di Lampedusa, c’è poco da aggiungere ai lamenti ipocriti delle autorità europee e alle giustissime denunce degli attivisti, delle organizzazioni e dei migranti. Anni fa, il teologo costaricano di origine tedesca,  Franz Hinkelammert, riassunse in due parole questa routinaria abbondanza di cadaveri raccolti nei mari e nei deserti nelle frontiere d’occidente: “genocidio strutturale”.

L’idea di “genocidio strutturale”, certamente implica un’accusa: le strutture non si impongono da sole, bensì necessitano di decisioni politiche che le facciano funzionare; decisioni politiche che, eventualmente, potrebbero disattivare. Quando una struttura alla propria fonte è incompatibile con la Dichiarazione dei Diritti Umani e con la più elementare dignità umana, le decisioni che vengono prese per tenerla in attività acquisiscono un’aura necessariamente truculenta, un’ aria di ludica crudeltà infantile, la forma di un grande sbadiglio nichilista. Penso che Barroso e Letta non avranno gradito di venire ricevuti a Lampedusa al grido di “assassini”. Non si sentono “assassini”e, probabilmente, la pila di cadaveri accumulati ai loro piedi gli trasmette un orrore sincero. Ma devono ingoiare gli insulti e i rimorsi di coscienza rispondendo in modo responsabile ai propri compromessi con la “struttura”. Compromessi da cui, in certa misura, dipendono anche i voti dei loro elettori.
La verità è che le misure prese dall’UE e dal governo italiano trasformano i nostri governanti in una specie di disegnatori fantasiosi di gincane infantili, o meglio, di avvincenti concorsi televisivi.Evitiamo di essere più pietosi di loro! Aumentare il finanziamento per i CIE, rafforzare la sorveglianza nel Mediterraneo e concedere la nazionalità ai morti -mentre si continua a perseguitare i sopravvissuti – ci conviene ed è per altro divertente, giacchè trasforma i movimenti migratori nel più costoso sport estremo del mondo: pagate migliaia di euro per l’iscrizione, oh giovani avventurieri, e lanciatevi in mare mille volte schivando tempeste e motovedette; se toccate terra vivi, come nel gioco dell’oca, vi riporteremo al punto di partenza; come nel gioco dell’oca, vi chiuderemo in prigione e vi obbligheremo ai lavori forzati clandestini; come nel gioco dell’oca, esposti a ogni genere di spregio e abuso. E non si può vincere? Come si vince in questa gara? Morendo! Se morite sulle nostre spiagge, giovani avventurieri, un dolce velo di pietà universale coprirà i vostri corpi e riceverete, inoltre, il grande premio, il sogno finalmente compiuto, la grande ambizione della vostra vita alla fine soddisfatta: la nazionalità italiana.
Questo macabro gioco, ovviamente, ha a che fare con la “struttura”. Ha a che fare, come diceEduardo Romero citando Marx, con il nostro “desiderio appassionato del lavoro più economico e servile” - una scelta “negriera”- e con il nostro scarso rispetto per le frontiere altrui: intervento economico in nazioni saccheggiate, accordi con dittatori e violazione fisica della sovranità territoriale. Una buona parte delle vittime di Lampedusa, per esempio, provenivano dalla Somalia, nelle cui acque le navi di noi europei depositano scorie inquinanti e rubano il tonno per le nostre tavole. Non dimentichiamo che, mentre decine di somali morivano affogati sulle coste italiane, un tribunale spagnolo giudicava di pirateria alcuni ex-pescatori di questo ex-paese africano”.
Però, quest’idea di premiare i morti con la nazionalità postuma - mentre si puniscono i vivi per essere sopravvissuti – comporta una dichiarazione di guerra e un malinteso razzista. A questi giovani che credono nella libertà di movimento e nel diritto a una vita migliore, gli si sta dicendo che saranno accettati e integrati in Europa solamente una volta morti, come cadaveri gonfiati dall’acqua, e soltanto se muoiono alla vista di tutti e in numero sufficiente per non poter essere nascosti sotto il tappeto. Vi vogliamo morti. O, parafrasando un vecchio detto: l’unico immigrante buono, l’unico immigrante assimilabile è l’immigrante morto.
Al contempo, il premio della nazionalità postuma è un atto di propaganda razzista, che presuppone e induce l’illusione che i somali, gli eritrei e i siriani naufragati a Lampedusavogliano essere italiani. In un momento in cui ci sono più italiani - e spagnoli – che non vogliono più essere italiani – e spagnoli – e che abbandonano per forza il proprio paese, i morti di Lampedusa – vincitori di questa gincana nichilista – illuminano una falsa Italia (o Spagna) desiderabile, appetibile, ricca e democratica, alle cui bontà aspirerebbero milioni di persone di tutto il mondo.
È una menzogna: non vogliono essere italiani (o spagnoli). Uno dei giornalisti che ammiro di più – l’italiano Gabriele del Grande – sono anni che conta, soprattutto, dà un nome alle vittime di questo “genocidio strutturale”. Mamadou và a morire è l’eloquente titolo di uno dei suoi libri. Orbene, dopo il massacro di Lampedusa, Del Grande ricordava alcuni dati elementari: che la maggior parte degli immigranti non entrano via mare; che molti di loro hanno provato a entrare prima attraverso la via legale; che sono molti di più quelli che escono di quelli che entrano; e che, in effetti, l’unica forma di fermarli è ucciderli (all’origine, durante il viaggio o a destinazione). E si lamentava con amarezza del ruolo dei mezzi di comunicazione che li trattano, al pari dei politici, come meri “oggetti” di un dibattito o di un’immagine, in modo che “i veri protagonisti” – i migranti vivi e quelli morti – non abbiano alcuna voce, né un nome, né una ragione. Del Grande, che ha viaggiato e condiviso con loro lavori e piaceri, descrive questa ostinazione di tanti africani ad attraversare le nostre frontiere come “il maggior movimento di disobbedienza civile contro le leggi europee”. E considera che “se un giorno tornasse la pace nel Mediterraneo e ci fosse libera circolazione, i morti di oggi si trasformerebbero in eroi di domani e si scriverebbero romanzi e si farebbero film su di loro e sul loro coraggio”.
Non vogliono essere italiani nè spagnoli nè greci. Conservano i propri legami affettivi e culturali. E lo fanno con molto orgoglio, come dimostrano le rimesse inviate ai paesi d’origine (o il fatto che siano le famiglie che risparmiano il denaro che permetterà al più giovane e coraggioso dei propri membri pagare il mafioso locale e imbarcarsi per l’Europa). Non vogliono essere italiani né spagnoli né greci, sebbene sì vogliono avere alcuni dei diritti che gli italiani e gli spagnoli e i greci sono sul punto di perdere. Reclamano il diritto di andare e venire e il diritto di rimanere nelle proprie abitazioni: a viaggiare e a non viaggiare, a lavorare, ad avventurarsi, a conoscere altri luoghi, ad amare altra come la propria gente. Non sono diversi da noi e, se a volte hanno una vita molto più difficile, sono pure più valorosi, più “intraprendenti”, più vitali, più capaci e meno cinici.
Può essere che esistano buone ragioni – economiche ed ecologiche – affinchè si limitino i flussi; ma, allora bisogna che cominci per le merci e per i turisti: si muovono molto più gli europei degli africani, e con un costo molto più alto. E ad ogni modo, il diritto universale al movimento, che implica anche il diritto a non muoversi e il diritto a ritornare, non lo si può applicare in maniera selettiva con criteri etnici, razziali o culturali, e meno lo si può imporre o proibire con la forza. Qualunque siano gli alibi “strutturali”, mai l’Europa potrà pretendere di essere democratica e illuminata, mentre l’omissione di soccorso, la scelta “negriera”, il finanziamento di campi di concentramento e la criminalizzazione della semplice sopravvivenza costituiscono la normalità antropologica e giuridica delle proprie popolazioni e delle proprie leggi.
Il Mediterraneo unisce le coste e separa i suoi abitanti. Non lasciamoci ingannare dalla tragica immagine di questa fessura piena di acqua e di morti; nemmeno dalla direzione dei flussi umani. Il nord e il sud del Mediterraneo si somigliano sempre di più. Mentre abbiamo l’impressione che siano loro a venire verso di noi, in realtà siamo noi ad andare verso di loro. Molto in fretta. E converrebbe che, da entrambi i lati, insieme si trovasse una soluzione, e che diventiamo volontariamente un po' africani, prima che i nostri governi inizino ad applicare le leggi sugli stranieri  - come già inizia a succedere – ai propri cittadini. Stranieri, terroristi, poveri, malati: Spagna -e Italia e Grecia - si stanno riempiendo di spagnoli postumi; vale a dire, di spagnoli virtualmente morti.




Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://www.cuartopoder.es/tribuna/lampedusa-perseguir-los-vivos-premiar-los-muertos/5133
Data dell'articolo originale: 12/10/2013
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=10743 

giovedì 12 settembre 2013

EORONIO/ FORONIO di Sedilo. Un grido tragico e un 'nome' grottesco per un ladrone 'illustre'?

EORONIO/ FORONIO di Sedilo. Un grido tragico e un 'nome' grottesco per un ladrone 'illustre'?

di Gigi Sanna

Recentemente Aba Losi ha pubblicato un articolo riguardante alcuni cippi funerari sardi assai difficili da inquadrare culturalmente e temporalmente e ancora, dal punto di vista del contenuto epigrafico, di controversa interpretazione. Uno di essi è quello noto di Sedilo che reca (o sembrerebbe recare) il nome di un defunto o di un dio chiamato Foronto (1).


        La lastra fu trovata dal prof. Natale (noto Natalino) Sanna (2) nel 1955 che nella rivista Frontiera del mese di luglio del 1968 (quindi 13 anni dopo) la pubblicò con un non breve commento nel quale, oltre al fornire tutte le informazioni riguardanti il rinvenimento del manufatto (sito e data della scoperta (3), contesto archeologico, forma e misure, successiva sua sparizione e probabile distruzione), si sofferma sul dato epigrafico parlando dell'interesse del reperto per la 'faccina' in altorilievo e, soprattutto, per la scritta insistente sulla parte mediana di esso.



     Il professore sedilese da buon epigrafista e onesto professionista avverte subito che la sua prima trascrizione (sulla quale contava - come dice - di ritornare) è affidabile sino ad un certo punto e che le foto (da lui scattate subito dopo il rinvenimento) non aiutano più di tanto a rendere il testo perfettamente leggibile: “Anche se le fotografie possono aiutarci, bisogna tener conto della scabrosità della pietra, per cui una linea potrebbe essere un casuale effetto d'ombra, anziché un segno intenzionale dello scalpellino, mentre, per contro, una illuminata dai raggi del sole che la colpiscano nel senso della lunghezza può quasi scomparire'. La penultima lettera, che in qualche fotografia sembra una T, in un'altra che è stata staccata a distanza più ravvicinata, può apparire come una I. Anche la prima lettera è, dalle fotografie, poco chiara. Potrebbe essere una  E , potrebbe essere una F con l'apice basso curvato, potrebbe essere C  o una G” (4).

  Insomma dall' analisi epigrafica, continua Natale Sanna, dati i dubbi esistenti solo sul primo e sul penultimo segno, possono risultare  queste soluzioni:

FORONTO/FORONIO
EORONTO/EORONIO
CORONTO/CORONIO
GORONTO/ GORONIO

E' da questa precisa (e direi esaustiva) analisi epigrafica che dobbiamo partire anche noi, dicendo subito che la sua soluzione circa l'esistenza di un GORONIUS  'nume tutelare della tribù'  non ci trova consenzienti non solo per alcuni motivi di carattere grammaticale e fonetico- linguistico (con insorgenza di difficoltà ammesse anche dal proponente) ma soprattutto per il fatto che mai, né allora né oggi, è stato trovato il nome di un dio tutelare di Borore/Gorore a nomeGoronius (5).

   Evidentemente la soluzione va trovata altrimenti, ma pur sempre sulla base epigrafica proposta dallo studioso la quale, una volta eliminati il CORONTO/CORONIO e il GORONTO/GORONIO, offre FORONTO/FORONIO e EORONTO/ EORONIO.
   Ora, come è da escludere un (per altro assai faticoso) GORONTO/GORONIUS inesistente così è da escludere il nome di una divinità di nome FORONTO (ipotizzata da alcuni) ugualmente mai attestata in nessun luogo, né in Sardegna né altrove.

   Per detta esclusione rimangono dunque i dati epigrafici di FORONIO/ EORONTO/ EORONIO, dati che subito possono ridursi solo a due in quanto EORONTO  non risulta essere un nome e tanto meno un verbo nonostante un' uscita finale possibile (- nto) .
  Che significato dunque può avere una scritta così 'lapidaria', FORONIO/EORONIO, di concisione epigrafica tale che si riduce ad appena sette lettere? La logica  porta a prendere in considerazione  due sole possibilità: o il cippo funerario reca  un'espressione molto breve  oppure un nome di persona, cioè il nome stesso del defunto. Quest'ultima ipotesi sembrerebbe la più percorribile proprio per la brevità del testo.  Ma FORONIO oppure  EORONIO  non sembrano, sulle prime almeno, suggerire significato alcuno, così come tutte le altre precedenti ipotesi epigrafiche. Non esiste un nome di persona  FORONIO o EORONIO.

    Resta a questo punto solo un'ipotesi, quella del rebus, cioè  potrebbe essere che lo scriba lapicida abbia  giocato con i segni (6) onde rendere la sequenza consonantico - vocalica  volutamente enigmatica, oscura e, parzialmente o totalmente, non comprensibile ai più. E che ciò abbia fatto sulla base di quelle (ed altre, come vedremo) ambiguità che tutti, già a partire dal prof. Natale Sanna, notiamo ma senza chiederci a fondo del perché. Come se quelle fossero solo semplici ambiguità obiettive epigrafiche e  non ambiguità soggettive e prodotte a bella posta dallo scriba,

  Se osserviamo la scrittura riscontriamo subito una notevole sicurezza nel riporto delle singole  lettere. Tutti i segni, che possono paleograficamente essere interpretati indifferentemente come romani o greci, sono riportati perfettamente, con l'eccezione del primo, per il quale l'indecisione e l'approssimazione grafica risultano notevoli  e del penultimo che però, stando alle avvertenze di chi per primo trascrisse il testo, potrebbe essere composto da una semplice vocale e cioè una 'I' e non da una T, con il tratto superiore orizzontale staccato da quello verticale come segno apparente, non pertinente e forse non esistente. Insomma, stiamo cercando di indagare  se la soluzione della oscura sequenza fonetica possa trovarsi in quella iniziale ambiguità e/o in qualche altra ambiguità insita negli altri segni.

   Procediamo dunque osservando la serie consonantico -vocalica con la prima soluzione, ovvero quella di  FORONIUS, tenendo presente l'ipotesi che il segno iniziale sia una 'F'. Credo che non possa sfuggire a nessun linguista che  la radice della parola è composta da FUR/FOR, varianti  che  sono, rispettivamente, quella latina di FUR,FURIS e quella greca di φώρ, φωρός. Ma non solo. Non può sfuggire neppure che anche in lingua sarda abbiamo la stessa radice FUR, ma con il particolare non trascurabile che essa si manifesta più completa in quanto porta anche lo stesso suffisso  presente nella lapide e cioè -ONI : FURONI.

   Ma, si obietterà subito, FURONI non è FORONI e FURONI non è FORONIO. Abbiamo la difficoltà di una vocale diversa nel primo caso e di un' aggiunta vocalica nel secondo. Certamente. Ma è qui che, a mio parere,  si manifesta la fantasia e la bravura maliziosa dello scriba: perché non certo a caso ma per un motivo ben preciso ha reso ambigua la prima lettera (E/F), grecizzando (FOR al posto di FUR) e latinizzando (dativo in -o per la dedica: lastraper) il nome (il nomignolo) di FURONI.
   Ciò però si capisce ancora meglio se uno non si fa ingannare dalla  'scriptio continua' e riesce a leggere in greco la sequenza EORONIO (con il primo segno non più con valore di 'F' ma di  'E'), la quale va scissa in EORON IO (ΕŌΡŌΝ ΙΟ: ἐώρων ἰώ) che in greco significa ' potessi io vedere (la luce), ahimè' (7).

   E' appena il caso di dire che nella lingua greca  il verbo ' ΟΡΑΩ' sottintende facilmente  il 'ΦΑΟΣ' e cioè la luce del sole (NUR in semitico nuragico). Verbo che in questo senso, com'è noto, è già da tantissimo tempo omerico (8). Mentre  IŌ/IΩ  è voce assai frequente nel linguaggio tragico per notare il grido di dolore (9) e usata nelle lapidi mortuarie (sino al IV -III secolo a.C.) forse per imitazione della lamentazione funebre (10).

   Se le cose stanno così, come ritengo che stiano, si capisce perfettamente il significato singolare, quasi impensabile, di scherno impietoso che assume il documento funerario dell'anonimo FURONI del cippo di Sedilo.Foronio non è altro che il nome 'volgare' del ladro (tragicamente) 'illustre' grecizzato e romanizzato, quello che tutti gli alfabetizzati potevano facilmente comprendere anche se lievemente alterato. E' come se il nostro 'ladrone' - un noto ladrone ovviamente – venisse per scherno e disprezzo pubblico additato in una lastra funeraria con un 'epico' e nobile 'ladronius'.

   Il risultato della grecizzazione FUR > FOR offre allo scriba lapicida  lo spunto per dare il nome grottesco al particolare defunto. Ma non solo. Offre la possibilità della resa di una doppia lettura (lettura a rebus), con l'inserimento di una espressione di dolore nascosta, con un epifonema tipico dei testi funerari (11); lettura stavolta non accessibile, ovviamente, se non a coloro che conoscevano la lingua greca. Infatti, il grido (IŌ) di dolore di FURONI/EORONIO, con l'imperfetto (EŌPŌN) tipico del desiderio irrealizzabile nel presente,  non è certo un tocco di umanità o un grido di 'pietas' posto nella lapide da parte dello scriba e (sicuramente) sacerdote.  E' invece il grido della disperazione del defunto, messo nella bocca di chi ora sa bene, per le sue malefatte, che la luce mai potrà (ri)vedere.  Dalla tomba, prigione definitiva con buio eterno (sembra essere anche questa l'allusione sottile della scritta), un 'furoni' (12) non può che emettere quel terribile tragico grido.

    Forse, dato il particolarissimo tenore della lastra funeraria sarda, sarà bene chiudere ricordando con quale estrema severità la Carta de Logu, il famoso codice sardo di leggi penali e civili con ispirazione  indigena, talora remotissima, tratta in un capitolo apposito (13) dei 'ladri' ovvero, in lingua sarda cosiddetta 'arborense', dei 'furonis'. Di Sedilo, di Abbasanta, di Aristanis o di altri luoghi che fossero del Logu (o del Regno giudicale che dir si voglia).                
    
Note esplicative e riferimenti bibliografici  
       
1)   V. Frau B., Che fine ha fatto Foronto?, in Logos, 2004,X 8,15 -19;  Stiglitz A., Un'isola meticcia: le molte identità della Sardegna antica. Geografia di una frontiera. Bollettino di Archelogia on line I 2010. Volume speciale, A/A3/3.
2)   Nativo di Sedilo (1918 - 1999) il prof. Natale Sanna è stato un ottimo docente ed un illustre studioso. Laureatosi in lettere all'Università di Cagliari nel 1941, ha insegnato per un certo tempo nel Liceo Ginnasio 'De Castro' di Oristano, per poi passare al Liceo 'Dettori' di Cagliari ed infine all'Istituto magistrale 'Eleonora d'Arborea' della stessa città.  Si è sempre occupato di storia della Sardegna. Ha pubblicato nel 1964 la prima edizione di  Il cammino dei Sardi (Fossataro). E' autore della parte riguardante "La Sardegna contemporanea (dal 1870 al 1924)" in AA.VV. Breve storia di Sardegna edita dall'ERI nel 1965 e di "La Sardegna dal 1870 alla prima guerra mondiale" in AA.VV. La Società in Sardegna nei secoli", ed. ERI 1967. Ha pubblicato nel 1986 la seconda edizione di  'Il cammino dei Sardi. Storia, economia, letteratura ed arte di Sardegna, (ed. Sardegna), un'opera in tre volumi che, sostituendo il vecchio testo storico 'Storia di Sardegna' di R.Carta Raspi, si è fatta apprezzare e si fa apprezzare ancora oggi per la chiarezza e soprattutto per qualità di precisione e di sintesi.
3)   Per la data precisa, con la modifica di essa rispetto a quella fornita dal Sanna,  si veda il bell'articolo  di Frau B., Che fine ha fatto Foronto?, cit. pp. 16 -18.
4)   Frau B., cit. pp. 15 -16.
5)   Frau B., cit. p. 16.
6)  Il lusus del rebus, più o meno accentuato, è abbastanza frequente e documentato nelle lapidi mortuarie della classicità. Si veda, per il greco tardo (quello che qui interessa) l'epigrafista M. Guarducci,  la quale  si sofferma, in particolare, sull'uso dell'acrostico  ('amore per l'artificio e per l'arcano', spiega la studiosa ) al fine di non rendere subito visibile ed afferrabile il nome del defunto ( M. Guarducci, L'epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Libreria dello Stato. Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 2005, Epigrafi sepolcrali, p. 388). Per la documentazione in Sardegna si veda in proposito il noto documento lapideo con scrittura in mix (sardo - latino e greco-etrusco), sempre di carattere funerario, di Giorre Utu Urridu, rinvenuto in agro di  Allai (S'isca de su nurachi)  nel 1984 dal rag. Armando Saba, funzionario della RAS  e pubblicato dal prof.  M. Pittau  dieci anni dopo  con un commento critico.
7)  Forse sarà bene rammentare circa l' EOPON/EŌPŌN e l'IO/ IŌ che il greco per un lungo periodo, in età arcaica e classica e forse anche recente, IV/III secolo a.C. (Guarducci M., 2005, cit. ) adoperò il segno dell' omicron (O) per notare sia la vocale breve sia la lunga.
8) Iliade, XXIV, vv. 557 -558: ...ἐπεί με πρῶτον ἔασας /αὐτόν τε ζώειν καὶ ὁρᾶν φάος ἡελίοιο (è Priamo che parla rivolgendosi ad Achille: poiché tu primieramente hai permesso/ che io vivessi e potessi vedere la luce del sole).
9)  IW DUSTANOS , Sofocle, Ant. 850; IW MAKARES, Eschilo, Theb. 96; IH IH IW IW DAIMONES. Esch. Pers. 1003; ecc.
10)   Guarducci M., L'epigrafia greca, ecc. cit. p. 387, nota 1.
11)   V. nota precedente.
12)  Si tenga presente  che 'furoni' oggi, in variante dialettale sedilese, è 'furone'. Ma il lapicida è costretto per il crudele lusus letterario (l'uscita in - ius) ad optare per la prima forma forse già da allora  'campidanese'; forma comunque adoperata molto più tardi, in epoca basso medioevale, nella 'koiné' della legislazione  arborense della Carta de Logu (v. nota successiva)     
13)   CdL, 18,  Pro su furoni.

giovedì 5 settembre 2013

Una delle ultime tribù incontattate del mondo, in Brasile, vicino al confine peruviano




Survival International جنبش حامی از ملل بومی


A Survival International sono state affidate nuove immagini che rivelano informazioni sui popoli incontattati mai diffuse prima. Gli Indiani fotografati vivono in Brasile, vicino al confine peruviano.
Le immagini mostrano una comunità prospera e forte con ceste piene di manioca e papaia appena raccolte nei loro orti.
© Gleison Miranda/FUNAI/Survival
Le immagini sono state scattate dal Dipartimento brasiliano agli affari indiani, che ha autorizzato Survival a usarle per arrivare a proteggere il loro territorio. Le immagini mostrano una comunità prospera e forte con ceste piene di manioca e papaia appena raccolte nei loro orti.
La sopravvivenza della tribù è messa in serio pericolo dalla penetrazione massiccia e illegale di taglialegna nel lato peruviano del confine. Le autorità brasiliane ritengono che l’invasione stia spingendo gli Indiani isolati peruviani verso il Brasile, e che i due popoli possano entrare in conflitto.
Da anni Survival e altre Ong chiedono al governo peruviano di intervenire con determinazione ed efficacia per fermare l’invasione, ma è stato fatto ben poco.
L’anno scorso, l’organizzazione americana Upper Amazon Conservancy ha effettuato l’ultimo di una serie di voli di ricognizione sul lato peruviano fornendo ulteriori prove del taglio illegale del legname in corso in un’area protetta.
L’uomo, con il corpo dipinto con l’annatto, è nell’orto della comunità, in mezzo ai banani.
© Gleison Miranda/FUNAI/Survival
“È necessario ribadire che queste tribù esistono” ha dichiarato oggi Marcos Apurinã, coordinatore dell’organizzazione degli Indiani amazzonici brasiliani COIAB, “quindi abbiamo deciso di appoggiare la diffusione di queste immagini che documentano i fatti. I fondamentali diritti umani di questi popoli vengono ignorati, soprattutto quello alla vita. Pertanto, è di vitale importanza proteggerli.”
La decisione è stata commentata anche da Davi Kopenawa Yanomami, famoso leader degli Indiani brasiliani: “Dobbiamo proteggere i luoghi in cui gli Indiani vivono, cacciano, pescano e coltivano. Mostrare le immagini degli Indiani incontattati è utile perché mostrano al mondo intero che sono lì, nelle loro foreste, e che le autorità devono rispettare il loro diritto di vivere nelle loro terre”.
L’organizzazione degli Indiani amazzonici AIDESEP ha diffuso un comunicato in cui si legge: “Siamo profondamente preoccupati per la mancanza di intervento da parte delle autorità… Nonostante le sollecitazioni contro il disboscamento illegale che giungono da fuori e dentro il Perù, non è ancora stato fatto nulla”.
Uomini con il corpo dipinto di tinture vegetali rosse e nere osservano l’aereo dei funzionari del governo brasiliano.
© Gleison Miranda/FUNAI/Survival
“Proteggere le terre in cui vivono i popoli incontattati è importante per tutto il mondo” ha dichiarato il presentatore Bruce Parry, conduttore della celebre serie televisiva Tribe. “In passato non siamo mai riusciti a inserirli nelle nostre società senza infliggere loro traumi terribili. Decidere quando unirsi al nostro mondo spetta a loro, non a noi.”
“I tagliatori illegali della foresta distruggeranno questa tribù” denuncia Stephen Corry, direttore generale di Survival International. “Il governo peruviano deve fermarli prima che sia troppo tardi. Le persone ritratte nelle foto sono evidentemente sane e vigorose. Tutto ciò di cui hanno bisogno da parte nostra è che il loro territorio sia protetto, in modo che possano decidere da sole della loro vita.
Oggi la loro terra è realmente a rischio e se l’invasione dei disboscatori non verrà fermata rapidamente, gli strapperemo il futuro dalle mani. Non è una possibilità: è storia inconfutabile, già scritta e riscritta negli ultimi cinque secoli sulla tomba di un numero incalcolabile di tribù.”


Per concessione di Survival International

venerdì 16 agosto 2013

Gobekli Tepe: Il tempio che non dovrebbe esistere

Gobekli Tepe: Il tempio che non dovrebbe esistere

Gobekli Tepe (trad: collina tondeggiante – ombelico) è un sito archeologico a circa 18 km a nordest dalla città di Şanlıurfa nell’odierna Turchia, presso il confine con la Siria, nel quale è stato rinvenuto il più antico esempio di tempio in pietra, risalente al 9600 a.C. risalente all’inizio del Neolitico, o alla fine del Mesolitico, e che sta sconvolgendo tutte le certezze sulle origini della civiltà.
Il complesso risale a sette millenni prima della Grande Piramide di Giza, ed è il più antico esempio noto di  architettura monumentale. Intorno all’8000 a.C. il sito venne deliberatamente abbandonato e volontariamente seppellito con terra portata dall’uomo.






Gli archeologi continuano a scavare e a discutere sul suo significato. Göbekli Tepe e altri siti mediorientali stanno cambiando le nostre idee su una svolta fondamentale nella storia umana: la rivoluzione neolitica, quando i cacciatori-raccoglitori nomadi si trasformarono in agricoltori stanziali.
Il sito si trova su una collina artificiale alta circa 15 m e con un diametro di circa 300 m, situata sul punto più alto di un’elevazione di forma allungata, che domina la regione circostante, tra la catena del Tauro e il Karaca Dağ e la valle dove si trova la città di Harran. Il sito utilizzato dall’uomo avrebbe avuto un’estensione da 300 a 500 m².
Finora meno di un decimo del sito è stato riportato alla luce, ma basta a dare un’idea del timore reverenziale che il tempio incuteva ai pellegrini che si radunavano qui ben 7.000 anni prima della costruzione di Stonehenge.
Gobekli Tepe fu individuata la prima volta nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense, che notò diversi consistenti cumuli di frammenti di selce, segno di attività umana nell’età della pietra. Il sito fu poi riscoperto trent’anni dopo da un pastore locale, che notò alcune pietre di strana forma che spuntavano dal terreno.
La notizia arrivò al responsabile del museo della città di Şanlıurfa, che contattò il ministero, il quale a sua volta si mise in contatto con la sede di Istanbul dell’Istituto archeologico germanico.
Gli scavi furono iniziati nel 1995 da una missione congiunta del museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico germanico sotto la direzione di Klaus Schmidt, che dall’anno precedente stava lavorando in alcuni siti archeologici della regione. Nel 2006 gli scavi passarono alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.
Gli scavi portarono alla luce un santuario monumentale megalitico, costituito da una collina artificiale delimitata da muri in pietra grezza a secco. Furono inoltre rinvenuti quattro recinti circolari, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti oltre 10 tonnellate ciascuno, probabilmente cavati con l’utilizzo di strumenti in pietra. Secondo il direttore dello scavo le pietre, drizzate in piedi e disposte in circolo, simboleggerebbero assemblee di uomini.
La scoperta più interresante riguarda le circa 40 pietre a forma di T, alte fino a cinque metri e mezzo. I blocchi di calcare, del peso di cinque tonnellate, furono portati qui da una cava vicina anche se le popolazioni dell’epoca non conoscevano la ruota né avevano ancora addomesticato le bestie da soma.
La maggior parte di esse sono incise e vi sono raffigurati diversi tipi di animali (serpenti, anatre, gru, tori, volpi, leoni, cinghiali, vacche, scorpioni, formiche). Alcune incisioni vennero volontariamente cancellate, forse per preparare la pietra a riceverne di nuove. Sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti e motivi geometrici.
Indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza di altre 250 pietre ancora sepolte nel terreno. Un’altra pietra a forma di T, estratta solo a metà dalla cava, è stata rinvenuta a circa 1 km dal sito. Aveva una lunghezza di circa 9 m ed era probabilmente destinata al santuario, ma una rottura costrinse ad abbandonare il lavoro.
Oltre alle pietre sono presenti sculture isolate, in argilla, molto rovinate dal tempo, che rappresentano probabilmente un cinghiale o una volpe. Confronti possono essere fatti con statue del medesimo tipo rinvenute nei siti di Nevalı Çori e di Nahal Hemar.
Gli scultori dovevano svolgere la loro opera direttamente sull’altopiano del santuario, dove sono stati rinvenute anche pietre non terminate e delle cavità a forma di scodella nella roccia argillosa, secondo una tecnica già utilizzata durante l’epipaleolitico per ottenere argilla per le sculture o per il legante argilloso utilizzato nelle murature.
La costellazione di Orione conta circa 130 stelle visibili ed è identificabile dall’allineamento di tre stelle che formano la cintura di Orione. Orione con i suoi due cani da caccia, Cane Maggiore e Cane Minore, combattono contro il Toro (Pleiadi?).


Nella roccia sono anche presenti raffigurazioni di forme falliche, che forse risalgono ad epoche successive, trovando confronti nelle culture sumere e mesopotamiche (siti di Byblos, Nemrik, Helwan e Aswad).
Ad oggi, 45 di queste pietre sono state scavate, ma vi sono indicazioni che c’è molto da scoprire. Indagini geomagnetiche indicano che ci sono centinaia di altre pietre erette, che aspettano solo di essere portate alla luce. Se Gobekli Tepe fosse semplicemente questo, sarebbe già un sito straordinario, una specie di Stonehenge turca.



Diversi fattori unici innalzano però Gobekli Tepe nella stratosfera dell’archeologia e nel regno del fantastico. Il primo è la sua età. La datazione al radiocarbonio mostra che il complesso è di almeno 12.000 anni fa, forse anche 13.000 anni.
Ciò significa che è stata costruita intorno al 10 mila a.C. Gobekli Tepe è quindi il più antico di tali siti nel mondo, con un ampio margine. E’ così antico da precedere la vita sedentaria dell’uomo, prima della ceramica, della scrittura, prima di tutto. Gobekli proviene da una parte della storia umana che è incredibilmente lontana, nel profondo passato dei cacciatori-raccoglitori.
Come poterono gli uomini delle caverne costruire qualcosa di così ambizioso? L’archeologo Klaus Schmidt, pensa che bande di cacciatori si siano riuniti sporadicamente nel sito, durante i decenni di costruzione, vivessero in tende di pelle di animali e uccidessero la selvaggina locale per nutrirsi. Le molte frecce di selce trovate presso Gobekli giocano a sostegno di questa tesi, ma sostengono anche la datazione del sito.
Questa rivelazione, che i cacciatori-raccoglitori dell’Età della Pietra potrebbero avere costruito qualcosa come Gobekli, cambia radicalmente la nostra visione del mondo, perché mostra che la vita degli antichi cacciatori-raccoglitori, in questa regione della Turchia, era di gran lunga più progredita di quanto si sia mai concepito. E’ come se divinità scese dal cielo avessero costruito Gobekli con le loro mani.
La particolare disposizione del complesso di Gobekli Tepe ricorda inoltre la disposizione delle principali stelle delle costellazione delle Pleiadi (conosciute anche come le Sette sorelle, chiamate dagli antichi romani Vergilie) che contano diverse stelle visibili ad occhio nudo nella costellazione del Toro, di cui tanti siti archeologici del mondo sembrano uniti nella medesima volonta’ di omaggiare queste stelle.



Mappa in dettaglio delle Pleiadi, con evidenziate (in verde) le nebulose associate (Wiki).
Pochi anni fa, gli archeologi rinvennero presso Cayonu un mucchio di teschi umani. Essi furono trovati sotto una lastra d’altare, tinta con sangue umano. Nessuno è sicuro, ma questa può essere la prima prova di sacrifici umani: uno dei più inspiegabili comportamenti umani, che potrebbero avere sviluppato solo di fronte ad un terribile stress sociale.
Gli esperti possono discutere sull’evidenza di Cayonu. Ma quello che nessuno nega che è il sacrificio umano abbia avuto luogo in questa regione, tra la Palestina, Israele e Canaan. L’evidenza archeologica indica che le vittime erano uccise in enormi fosse di morte, i bambini erano sepolti vivi in vasi, altri erano bruciati in grandi giare di bronzo.
Questi atti sono quasi incomprensibili, a meno che non si pensi che la gente aveva imparato a temere le divinità, perché era stata scacciata dal paradiso. Così avrebbe cercato di propiziare la collera dei cieli. Questa barbarie potrebbe, infatti, essere la chiave di soluzione di un ultimo, sconcertante mistero. I sorprendenti fregi di pietre di Gobekli Tepe si sono conservati intatti per uno strano motivo.
Molto tempo fa, il sito fu deliberatamente e sistematicamente sepolto con un colossale lavoro insieme a tutte le sue meravigliose sculture di pietra. Intorno al 8000 a.C., i creatori di Gobekli seppellirono la loro realizzazione e il loro glorioso tempio sotto migliaia di tonnellate di terra, creando le colline artificiali sulle quali il pastore curdo camminava nel 1994. Il motivo che spinse gli antichi a seppellire per sempre il tempio di Gobekli Tepe rimane a tutt’oggi un mistero.